Christillin e Greco: «Così renderemo gratuito l’ingresso al Museo Egizio»

Christillin e Greco: «Così renderemo gratuito l’ingresso al Museo Egizio»

di Gabriele Ferraris

La presidente e il direttore parlano del futuro prossimo: «Di certo la gratuità non si improvvisa. I progetti per i 200 anni»

C’è un museo, a Torino, che meglio d’ogni altro ha affrontato e superato lo stress pandemico, e che oggi registra la ripresa più vivace in termini di visitatori e attività. Curiosamente — o forse no — è lo stesso museo che in questi anni ha dovuto subire gli attacchi e i dispetti del piccolo cabotaggio politico. Ma alla presidente del Museo Egizio, Evelina Christillin, e al direttore Christian Greco, alias il Dinamico Duo, quelle miserie non fanno un plissé. Guardano avanti, e parlano solo dei progetti, degli obiettivi, delle sfide che li attendono. Il 17 marzo inaugurano con un’apertura serale gratuita «Aida figlia di due mondi», la grande mostra voluta dal MiC per celebrare i centocinquantanni del capolavoro verdiano, e non vedono l’ora di raccontartela. «La mostra sta venendo proprio bene», esclama la pimpante Evelina.

Spiegatemela in breve.
Prende la parola Greco: «È una mostra molto complessa. Racconta il momento storico delle seconda metà dell’Ottocento quando il Kedivè Ismaili riorganizza il paese e l’Egitto si presenta e dialoga con l’Europa: dialogo di cui sono momenti cruciali l’esposizione universale di Parigi de1867, e la commissione di “Aida” a Verdi nel ‘69. E a proposito di quella commessa, esporremo per la prima volta lettere e carte di Verdi inedite provenienti dal Centro Studi Verdiani».

Non siete in ritardo per il centocinquantenario? La prima di “Aida” fu nel 1871.
«Aida ebbe due prime: il 24 dicembre 1871 al Cairo, e l’8 febbraio 1872 alla Scala. Noi abbiamo ricordato il debutto al Cairo ospitando un concerto del Regio il 18 dicembre — non ci pareva il caso di farlo alla vigilia di Natale… — ma Verdi stesso considerava quella della Scala la vera “prima”, e la mostra celebra quella ricorrenza».

Dopo Aida cosa ci porterà il 2022?
«Altri due momenti clou. — risponde Evelina — Intanto “La sala della scrittura”, perché il 2022 è il bicentenario della decifrazione dei geroglifici e su quel tema Christian si è inventato una sala nuova, permanente, che aprirà a settembre; e entro quest’anno inauguriamo almeno una parte del “giardino egizio”. Nel 2023 negli spazi di via Maria Vittoria riprenderemo, ampliandola, “Archeologia Invisibile”, mostra che ha avuto un successo enorme. Ma il nostro principale obiettivo è il bicentenario del Museo nel 2024: lì siamo già ai progetti esecutivi, con cinque grandi eventi per un investimento intorno ai 20 milioni».

Qual è la chiave dell’Egizio per ripartire?
Prende la parola Christian: «Il Museo deve ripartire dalla ricerca, un museo senza ricerca è morto, non ha più nulla da comunicare. Faccio un esempio, il più recente. Grazie alla collaborazione con la Soprintendenza e con la dottoressa Saba De Michelis, abbiamo restaurato e pubblicato in edizione critica il papiro del Libro dei Morti di Baki, che era ridotto a minuscoli frammenti conservati in una scatola. Un lavoro durato quattro anni. E racconteremo questo lavoro in una delle nostre mostre del ciclo “Il laboratorio dello studioso”. Il Museo deve offrire novità. Stiamo mettendo le collezioni al centro, le studiamo, le pubblichiamo, ma cerchiamo pure un modo per comunicare i risultati al pubblico. Non esiste la dicotomia fra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, la vera cura del patrimonio è la conoscenza: e come curerai il patrimonio se non ne radichi la conoscenza nella collettività?».

E come si fa?
«Dicevo di “Archeologia invisibile”. Lì s’è capito che dobbiamo rendere accessibili anche i contenuti “alti”. Non avere l’arroganza di dire “faccio la ricerca per la comunità scientifica e alla gente poi racconto altro”. Il compito del Museo è ravvivare e soddisfare la sete di conoscenza del visitatore. Il museo-magazzino che si limita a custodire il patrimonio ottempera solo in parte alla sua missione».

Insomma, secondo lei custodire è il minimo sindacale…
«Sì. Tant’è che sono convinto che l’accesso alle collezioni dovrebbe essere gratuito, come al British Museum. Quello che si deve pagare è la ricerca».

La vedo un po’ difficile…
«Prima del covid avevamo quasi un milione di visitatori all’anno, con un biglietto medio di 10 euro. Se adesso abbiamo 400 mila visitatori, per mantenere gli stessi incassi il biglietto dovrebbe passare da 10 a 20-30 euro, e non è pensabile pagare 30 euro per entrare al Museo Egizio. Ma cosa sei disposto a pagare, tu visitatore, se ti offro delle esperienze di crescita innovative? Se, per esempio, con la realtà aumentata ti faccio fare una passeggiata nella Tebe del 1500 avanti Cristo? Voglio dire: tu entri gratis, ma se vuoi elevare la tua conoscenza allora c’è, ad esempio, una guida che ti parla degli ultimi risultati della ricerca. Quello è il costo che dovrebbe essere sostenuto da fondi pubblici o privati, ma anche dal pubblico che paga per usufruire dell’offerta. Di certo la gratuità non si improvvisa. L’eredità che vorremmo lasciare nel 2025, quando scadrà il nostro incarico, è un piano strategico nel quale, valutata ogni variabile, indichiamo una credibile sostenibilità. Al momento facciamo esperimenti: l’anno scorso, quando aprimmo per due sole settimane a febbraio, decidemmo per l’ingresso gratuito e furono due settimane di incassi eccellenti, perché molti più del solito prenotavano la visita guidata a pagamento, ed erano più disposti a spendere al bookshop. Dovremo anche incrementare il fundraising, creare un gruppo di sostenitori pubblici e privati che vogliono con il Museo un coinvolgimento in progetti curatoriali e di ricerca a lungo termine. La Cassa Depositi Prestiti, intanto, è interessata ai nostri progetti di inclusione sociale e ci ha identificati come uno dei due enti culturali del Nord Italia con cui collaborare. Una cosa è sicura: pur con la gratuità, i conti del Museo devono essere in ordine».

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12 marzo 2022 (modifica il 12 marzo 2022 | 16:56)

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La «profezia» di Kissinger sull’Ucraina

La «profezia» di Kissinger sull’Ucraina

di Gianluca Mercuri

Otto anni fa, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger scrisse un articolo definendo tre punti per «porre fine alla crisi dell’Ucraina». Riguardavano l’ingresso nell’Ue, quello nella Nato e la sua finlandizzazione. Lette ora, quelle righe sembrano ad alcuni l’ennesima profezia di un oracolo delle relazioni internazionali, e ad altri la certificazione dei suoi errori

Kissinger, eternamente Kissinger, inevitabilmente Kissinger. A quasi 99 anni, l’ex segretario di Stato americano è ancora una specie di oracolo delle relazioni internazionali, un uomo il cui impareggiabile (e controverso) mix di pensiero e azione rappresenta un punto di riferimento ineludibile, anche quando si punti a superarlo o demolirlo. Talmente onnipresente, l’uomo che in un modo o nell’altro si è visto consultare da tutti gli inquilini della Casa Bianca da Kennedy in poi, che anche quando non parla è come se lo facesse, perché c’è sempre un suo pronunciamento, un suo atto, un suo scritto che improvvisamente torna attuale, e dà l’idea di adattarsi perfettamente all’ultima crisi.

L’ultimo esempio è il suo articolo sul Washington Post di 8 anni fa — 5 marzo 2014 — che in questi giorni è tornato a circolare insistentemente in Rete come una sorta di profezia, col corollario da molti desunto che, se il mondo avesse dato retta al maestro dell’approccio realista alle questioni di politica estera, la tragedia ucraina sarebbe stata evitata.

Ucraina-Russia: le ultime notizie sulla guerra

Il pezzo si intitolava «To settle the Ukraine crisis, start at the end» («Per risolvere la crisi ucraina, si cominci dalla fine») e commentava gli effetti della rivoluzione di Euromaidan, esplosa a cavallo tra il ‘13 e il ‘14 dopo che il presidente Yanukovyc aveva rifiutato di firmare l’accordo di associazione con l’Ue per siglarne uno con la Russia, finendo per essere costretto alla fuga dalla reazione popolare.

Cosa diceva Kissinger? In sintesi:
• Sì a un’Ucraina associata all’Europa
• No a un’Ucraina nella Nato
• Ucraina «finlandizzata».

Tutte questioni, come si vede, estremamente attuali e ricorrenti in ogni analisi di questi giorni terribili.

La finlandizzazione, in particolare, veniva spiegata così: «Saggi leader ucraini dovrebbero optare per una politica di riconciliazione tra le varie parti del loro paese. A livello internazionale, dovrebbero perseguire una posizione paragonabile a quella della Finlandia. Quella nazione non lascia dubbi sulla sua fiera indipendenza e coopera con l’Occidente nella maggior parte dei campi, ma evita accuratamente l’ostilità istituzionale verso la Russia».

Naturalmente l’analisi era molto più articolata. In particolare, tendeva a sottolineare errori e contraddizioni del campo occidentale. Si sosteneva che l’Ucraina «non deve essere l’avamposto di una delle due parti contro l’altra, ma funzionare come un ponte tra loro». Che la Russia «deve capire che cercare di costringere l’Ucraina a uno status di satellite condannerebbe Mosca a ripetere la sua storia ciclica di pressioni reciproche con l’Europa e gli Stati Uniti». Che «l’Occidente deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere solo un paese straniero», con relative citazioni sulle radici storiche e religiose della Russia ben piantate in Ucraina che sentiamo ripetere di frequente. Che l’Ucraina ha «una storia complessa e una composizione poliglotta», riassunte schematicamente così: «L’ovest è in gran parte cattolico; l’est in gran parte russo-ortodosso. L’ovest parla ucraino; l’est parla soprattutto russo».

Poi c’erano altre due affermazioni chiave: «La Russia non sarebbe in grado di imporre una soluzione militare senza isolarsi»; e «per l’Occidente, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica; è un alibi per l’assenza di una politica».

Ripreso e citato spesso, l’articolo «profetico» di Kissinger ha avuto soprattutto commenti positivi, che ne hanno sottolineato la lucidità, l’equilibrio e la preveggenza. Su tutti quello di un politologo stimato come Piero Ignazi, che sul Domani ha scritto che il grande diplomatico americano aveva ragione quando sosteneva che «trascinare l’Ucraina in un confronto tra Est e Ovest avrebbe impedito per decenni di portare la Russia in un sistema internazionale cooperativo». Interessanti anche altri rilievi di Ignazi: «Si poteva fermare prima Putin e salvare l’Ucraina? Forse sì, ma la supponenza politico-morale occidentale ha impedito passi intelligenti in questa direzione». E ancora: «Il superiority complex che noi occidentali spesso esprimiamo risulta fastidioso, e financo insopportabile, agli altri paesi».

È curioso, e perfino divertente, notare che Kissinger — l’icona dell’imperialismo Usa contro cui le sinistre mondiali hanno marciato per anni in ogni angolo del pianeta — è stato così arruolato nel campo dei critici dell’Occidente. Una forzatura? Fino a un certo punto, perché gli argomenti kissingeriani sono in effetti affini a quelli di un certo pacifismo di sinistra molto criticato (per esempio da Paolo Mieli) per il suo presunto filo-putinismo di fondo (e a proposito di alibi e Putin, Mieli nega al leader russo quello della presunta politica aggressiva della Nato nei confronti della Russia).

L’entusiasmo per la profezia kissingeriana, però, non è unanime. Chi proprio non lo condivide è Mario Del Pero, storico a SciencesPo, che il mito di Kissinger lo demolisce punto per punto: non arriva ai livelli di Christopher Hitchens, che in un libro memorabile lo descrisse come «uno splendido bugiardo dalla straordinaria memoria», e soprattutto come un criminale di guerra; ma certo è ben distante dall’apologia che Niall Ferguson ne ha fatto nella sua biografia in due volumi, in cui contesta l’opinione comune sulla sua spietatezza.

Sul sito della Treccani, Del Pero smonta dunque «la presunta profezia kissingeriana». Quei commenti del 2014, afferma, «esprimono in forma plastica, verrebbe voglia di dire quintessenziale, il suo stile, il suo metodo e il suo approccio. E ovviamente i suoi limiti, analitici e prescrittivi. Il lessico utilizzato, denso di aforismi, è quello — all’apparenza savio e preciso e nei fatti spesso delfico e vago — che si ritrova in tanti scritti kissingeriani: “il test della politica è come finisce, non come inizia”; “la politica estera è l’arte di stabilire delle priorità”», e altri ancora. «A queste verità — talora banali, non di rado oracolari — si aggiunge l’uso di una storia che fisserebbe paletti, o meglio essenze, ineludibili per tutti i soggetti coinvolti». Perché «una visione essenzialista come quella kissingeriana fatica a confrontarsi con processi storici che definiscono la creazione, la costruzione, l’adattamento e il costante ripensamento di una nazione e dei suoi fondamenti identitari».

Nel caso dell’Ucraina, «sembra dare quasi per scontato che la popolazione russofona sia inevitabilmente, e perennemente, filorussa (e quindi filoputiniana). Numerosi esperti ci spiegano invece con chiarezza quanto una specifica identità ucraina sia stata ridefinita (e rafforzata) dagli anni successivi alla crisi del 2014-15 (ndr: ne ha scritto Luca Angelini sulla Rassegna di mercoledì). Ed è davvero difficile immaginare che la resistenza all’invasione russa e questa terribile guerra non siano destinate a dare un contributo fortissimo alla costante ridefinizione dell’identità nazionale ucraina».

Del Pero, in linea con Mieli, contesta soprattutto un punto: «È la Nato, nel 2014, a essere individuata da Kissinger come la causa principale della crisi che si aprì allora». Alla fine sembra ammettere in qualche modo che il nocciolo delle sue proposte di allora si mostri resistente al tempo: «Restano sul tavolo la neutralità — nella forma di un riconoscimento che l’Ucraina non farà mai parte della Nato — e il legame con Europa, che ora include addirittura l’adesione di Kiev alla Ue». Ma poi precisa che si tratta di «due elementi che paiono offrire delle basi negoziali molto fragili e futuribili nel contesto di guerra attuale», in cui «i costi crescenti del conflitto alzano per entrambe le parti la soglia per accettare un compromesso».

Eppure, quanto le idee kissingeriane siano ancora attuali — il che non vuol dire che siano le uniche soluzioni percorribili, me che forse non «nascevano deboli e su premesse problematiche già otto anni fa» — lo ha confermato sul Corriere Franco Venturini: «Perché non perseguire un accordo negoziale che preveda l’ingresso accelerato dell’Ucraina nella Unione europea, la sua neutralità (dunque niente Nato), e una serie di garanzie per tutte le parti in causa?».

Gli europei sembrano «esitanti», ma «davvero si opporrebbero a una intesa che potrebbe portare alla sospirata pace? E l’Ucraina non potrebbe finalmente smettere di essere uno Stato-cuscinetto e rafforzare i suoi legami con l’Occidente, con la Ue e senza i missili che allarmano i russi?».

Naturalmente, accanto a quello della collocazione internazionale dell’Ucraina resta il nodo dei suoi confini e del destino del Donbass. Intanto, piaccia o non piaccia, il vecchio Kissinger è sempre lì, a fare arricciare nasi ma sempre a farsi ascoltare.

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11 marzo 2022 (modifica il 12 marzo 2022 | 18:06)

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Tutti gli errori di Putin in Ucraina: in guerra fuorviato

Tutti gli errori di Putin in Ucraina: in guerra fuorviato

di Andrea Marinelli

L’analisi della strategia di Putin di Vincenzo Camporini, ex capo di Stato Maggiore della Difesa italiana: «Superficialità nell’ingresso in guerra». I generali in prima linea? «Forse segno di carenze nelle retrovie»

«I russi sembravano certi che il loro esercito sarebbe stato accolto con spargimento di petali di rosa da parte della popolazione ucraina, che il governo ucraino sarebbe fuggito e che in 48 ore il problema sarebbe stato risolto: quindi non serviva una campagna pianificata», spiega al Corriere Vincenzo Camporini, 75 anni, ex capo di Stato Maggiore della Difesa italiana. «Se così è un segno di grande superficialità, ma anche che i servizi informativi russi hanno dato al presidente Putin informazioni non corrispondenti alla realtà sul terreno. In ogni organizzazione al capo piace sentirsi dire di sì, ma quello che è accaduto durante la famosa riunione del Consiglio di sicurezza nazionale in cui venne ridicolizzato il capo dei servizi di intelligence russi Sergei Naryshkin da parte di Putin è indicativo». La sensazione, quindi, è che i servizi abbiano riferito allo Zar quello che voleva sentirsi dire: in base a quelle informazioni sono state poi prese decisioni che si sono rivelate sbagliate.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Il ritardo nella contraviazione, iniziata venerdì

Questo serve anche a comprendere i bombardamenti cominciati venerdì sulle città occidentali, Ivano-Frankivsk e Lutsk. «Credo che siano dettati dalla necessità di incrementare il livello di controllo dell’aria», spiega Camporini. Una campagna militare comincia sempre con la contraviazione: i cacciabombardieri, gli intercettatori di scorte e i ricognitori vengono inviati a distruggere le capacità aeree dell’avversario, in volo oppure a terra, rendendo inutilizzabili gli aeroporti. Una volta impedito al nemico di utilizzare il suo sistema aereo, si dedicano le risorse al supporto delle truppe di terra». Questa fase in Ucraina è mancata.

I generali in prima linea: segno di carenze?

Venerdì è stata confermata la morte di un terzo generale russo, Andrey Kolesnikov. Secondo Camporini, «i generali in prima linea sono un segnale di combattività dei quadri russi, che però evidenzia come ci sia forse una carenza a livello inferiore». Uno dei motivi è l’impiego delle truppe di leva: in Russia c’è ancora la coscrizione e i ragazzi si fanno 12 mesi di leva, durante i quali vengono mandati nei teatri operativi. «In 12 mesi cosa insegni a un ragazzo di 18 anni?», si chiede Camporini. «Giusto a imbracciare il fucile e tirare il grilletto. Non gli puoi insegnare tattiche e tecniche sofisticate. Basta pensare al rapporto di simbiosi fra carri e fanteria: il carro è poderoso ma è vulnerabile, bastano tre uomini nascosti dietro un albero e salta per aria. Ci deve essere la collaborazione con la fanteria, e per questo servono automatismi, serve un addestramento raffinato».

Il bisogno di nuove truppe (anche dal Medio Oriente)

Ci sarà un incremento della spinta, anche supportato con l’invio di nuove truppe. «Si parla di quasi 16 mila volontari che arrivano dalla Siria, e del contingente schierato in Nagorno Karabakh», dice Camporini. In questo senso si può interpretare anche il possibile arrivo delle truppe bielorusse, che gli ucraini ritengono sia imminente: l’invasione sarebbe la risposta di Minsk al presunto raid aereo partito dall’Ucraina e che, secondo Kiev, sarebbe stato pianificato dalla Russia. Un altro modo di costruire il pretesto per far entrare nel campo i rinforzi di Lukashenko. In ogni caso, l’arrivo di questi rinforzi è indice di due cose: 1) che i piani iniziali erano mal calibrati; 2) che le forze disponibili da parte russa non sono sufficienti: un segnale di debolezza, più che di forza.

«Putin può vincere? Qualsiasi ipotesi fallirà»

Putin può perdere in tanti modi. Non sappiamo cosa vuole, e per questo non possiamo immaginare una strategia vincente. «Qualsiasi ipotesi, però, si scontra con la quasi certezza di fallimento», spiega il generale Camporini. «Se sconfigge sul terreno l’esercito ucraino e torna in Russia, l’Ucraina si ribella. Se occupa l’Ucraina in modo permanente avrebbe bisogno di circa mezzo milione di uomini, specie considerando che, confinando con altri Paesi, è possibile far filtrare rifornimenti agli insorti, come è accaduto in Afghanistan. Anche nell’ipotesi che la battaglia venga vinta, è probabile che si perda la guerra».

12 marzo 2022 (modifica il 12 marzo 2022 | 12:06)

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Tesla da record: ha due miliardi di dollari in bitcoin. Come li utilizzerà Elon Musk?

Tesla da record: ha due miliardi di dollari in bitcoin. Come li utilizzerà Elon Musk?

di Lorenzo Nicolao È la seconda società la mondo per numero di criptovalute possedute. Il totale degli investimenti delle prime venti aziende ammonta a 8,7 miliardi di euro

Tesla ha dichiarato che, alla fine dello scorso anno, possedeva quasi 2 miliardi di dollari in bitcoin (circa 1,8 miliardi di euro). La comunicazione è stata information alla Sec, l’ente federale di vigilanza della borsa statunitense. Ben 1,5 miliardi sono stati acquistati nel corso del 2021, rendendo quella di Elon Musk la seconda azienda più ricca dal punto di vista delle criptovalute. Il primato resta a Microstrategy, società di analisi dati guidata da Michael Saylor, ben noto amante delle valute digitali, che possiede al momento oltre 125mila bitcoin (in confronto ai 43mila di Musk), l’equivalente in euro di 4,7 miliardi. Per Tesla la cifra rappresenta circa il 10% della liquidità, incluso il contante e tutti i titoli negoziabili. L’azienda delle car elettriche aveva iniziato ad accettare pagamenti in bitcoin, ma lo scorso maggio ha deciso di sospendere questa opzione per le preoccupazioni legate all’impatto ambientale delle operazioni. Con le cripto-transazioni erano stati comunque guadagnati in quel periodo, sotto forma di bitcoin, quasi 24 milioni di euro.

Alle spalle di queste due aziende, di molto distaccate, il patrimonio più significativo in criptovalute lo detengono Marathon Digital Holdings (8.133 bitcoin), al terzo gradino del podio, Square Inc. (8.027 ), Capanna 8 Mining Corp. (5.242 ), Bitfarms Limited (4.600) e Coinbase (4.487 ). Sono tutti gruppi che comunque operano nell’ambito delle monete digitali e ne fanno il loro core business. Per questo Tesla fa un po’ eccezione. Nickel Digital Possession Management ha pubblicato in un report il totale degli investimenti, che ammonterebbe a 8,7 miliardi di euro. Questa cifra è la somma del valore in bitcoin acquistato da venti società pubbliche che hanno una capitalizzazione di mercato superiore ai mille miliardi di dollari. Una partita per ricchi quindi, in cui la pandemia ha giocato un ruolo molto significativo, complici anche le recenti paure inflazionistiche. Nonostante la volatilità, le criptovalute hanno infatti costantemente battuto il loro record in valore, per quanto a volte basti un’informazione, un tweet o una comunicazione che riflette incertezza a fare immediatamente crollare la stima del bene digitale. Al momento, il record più alto mai registrato per il bitcoin è stato prossimo ai 69mila dollari, ma sono finora state frequenti le ricadute del suo valore.

Per Tesla, come per tante altre aziende che hanno deciso o decideranno di investire in bitcoin, la domanda riguarda però il futuro, information la volatilità propria delle criptovalute e la conseguente esposizione dell’azienda all’instabilità, qualora si puntasse solo su questa risorsa. Al momento le regole contabili richiamano l’attenzione sul valore immateriale del bitcoin, una situazione che non dà modo di rivendicarne la crescita, mentre al contrario va segnalata una perdita. Questa dinamica non darà quindi spazio a vittorie dal punto di vista contabile, per una risorsa che, nel contesto dell’economia mondiale, ha ancora tante zone d’ombra da chiarire.

10 febbraio 2022 (modifica il 10 febbraio 2022|17:37)

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Alibaba, ecco l’auto elettrica del colosso cinese dell’e-commerce

Alibaba, ecco l’auto elettrica del colosso cinese dell’e-commerce

Si chiama IM L7 e costa 58.400 euro la nuova berlina cinese: prima auto con ricarica wireless, arriverà ad aprile, con 540 cv e fino a 1.000 km di autonomia

Si chiama IM L7 l’ auto a zero emissioni la prima auto di Alibaba, il colosso cinese dell’e-commerce. Prima auto con ricarica wireless, arriverà a aprile, a quasi un anno dalla presentazione ufficiale. IM Motors, joint venture creata da Alibaba, in collaborazione con il costruttore Saic, ha annunciato che la berlina di lusso elettrica avrà un prezzo d’attacco di 408.000 yuan, pari a circa 59.000 euro, ma con prestazioni e contenuti premium. E non è un segreto che le intenzioni della casa cinese siano quelle di proporre questo modello come una valida alternativa alla Tesla Model S, che in Cina costa circa il doppio.

Prima al mondo con ricarica wireless

La IM L7 sarà la prima auto al mondo ad essere dotata di ricarica wireless, e in grado dunque di ricaricare le batterie senza cavi a una potenza di 11 kWh. Per la berlina si potranno scegliere due tipi di batteria di diversa capacità: uno da 93 kWh e uno da 118 kWh, con autonomia dichiarata rispettivamente di 615 e 1.000 km. La prima variante ad arrivare sul mercato avrà la batteria di taglio più piccolo, e per il momento la trazione sarà solo posteriore, in attesa, successivamente del modello a trazione integrale con due motori. Quanto a prestazioni, la L7 avrà una potenza di 540 cv e 700 Nm di coppia, con uno scatto da 0 a 100 in 3.9 secondi. Altamente tecnologica, potrà contare su sistemi di assistenza alla guida di ultimissima generazione, con questo telecamere ad alta risoluzione, 12 sensori a ultrasuoni, 5 radar e un lidar.

L’arrivo in Europa

La nuova berlina elettrica verrà prodotta nello stabilimento Saic, situato nella nuova area di Lingang, proprio accanto al sito produttivo in cui si trova anche la fabbrica Tesla. Non ci sono ancora informazioni ufficiali sulla possibilità o meno di vedere la vettura esportata in Europa, anche se da questo punto di vista potrebbe essere assolutamente strategica l’alleanza con il costruttore Saic, proprietario tra gli altri del marchio MG, e con importanti rapporti commerciali con molti partner europei.

11 marzo 2022 (modifica il 12 marzo 2022 | 10:43)

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