Oligarchi, chi è colpito dalle nuove sanzioni Ue: il «re

Oligarchi, chi è colpito dalle nuove sanzioni Ue: il «re

Le black list Ue e Usa si allungano

Si allungano le liste nere con i nomi degli oligarchi russi sanzionati da Ue, Stati Uniti e Regno Unito. Dopo l’aggiunta di miliardari del calibro di Roman Abramovich, nell’elenco stilato dal governo britannico, l’Unione Europea ha aggiunto alcuni imprenditori russi tra i sanzionati a cui si applica il congelamento dei beni, il sequestro degli asset, yacht compresi, e il divieto di viaggio. Nelle nuove sanzioni approvate dal Consiglio Ue figurano 160 russi, 14 oligarchi e 146 membri del Consiglio della Federazione Russa. Anche gli Stati Uniti hanno aggiornato la loro lista. Ma vediamo chi è stato colpito.

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Chi è l’oligarca russo Andrey Melnichenko, proprietario dello Yacht «Sy/A»

Chi è l’oligarca russo Andrey Melnichenko, proprietario dello Yacht «Sy/A»

di Irene Soave

Andrey Melnichenko, re dei fertilizzanti e del carbone, classe 1972, è tra i più giovani miliardari russi. Secondo la Ue, che lo ha incluso nelle nuove sanzioni, «è membro della cerchia più ristretta di Vladimir Putin»

Quando nel 1992 Boris Eltsin distribuiva a tutti i cittadini russi i «voucher» con cui il patrimonio pubblico russo sarebbe stato privatizzato — un’invenzione da cui poi nacquero quelli che oggi chiamiamo «oligarchi», che presto li avevano comprati a man bassa — Andrej Igorevic Melnichenko aveva appena vent’anni. Non partecipò direttamente alla razzia dei voucher: eppure oggi è uno degli oligarchi più ricchi, e dei più giovani. È lui il proprietario dell’imbarcazione a vela più grande al mondo, lo Sy/A progettato da Philippe Stark e sequestrato nelle scorse ore al porto di Trieste in applicazione delle sanzioni per la guerra di Ucraina (leggi qui gli ultimi aggiornamenti). Tra i suoi beni, che condivide con la moglie ex modella Aleksandra, serba, sposata con una cerimonia da 35 milioni di dollari in cui avevano cantato Whitney Houston e Christina Aguilera, ci sono anche due Ninfee di Monet e una collezione «inestimabile» di mobili settecenteschi da tutta Europa. Oltre a uno yacht a motore gemello di quello sequestrato, sempre disegnato da Philippe Stark: il My/A. Secondo un vecchio articolo di Bloomberg, queste barche hi-tech «riflettono l’occhio per l’innovazione che ha reso Melnichenko uno dei miliardari più giovani del suo Paese».

Ecco come. All’epoca delle privatizzazioni, Melnichenko lasciò l’università: era stato ammesso appena l’anno prima alla prestigiosissima facoltà di Fisica dell’Università statale di Mosca; figlio di due insegnanti, aveva avuto una borsa di studio completa, per merito. Fiutando il vento, però, aveva subito mollato gli studi di Fisica, per aprire una catena di cambiavalute e di negozi di informatica insieme a due compagni di corso. Dopo i primi 50 mila dollari di utile, i tre chiedono e ricevono una licenza per l’esercizio dell’attività bancaria, e fondano la banca Mdm, che presto diventa tra le maggiori banche commerciali e d’investimenti in Russia. Mdm si espande acquisendo una banca regionale dopo l’altra, fino ai primi anni Duemila; nemmeno in questa fase partecipa alle privatizzazioni dell’epoca post-Sovietica e Melnichenko, che nel frattempo ne è il solo azionista ed è rientrato all’università, laureandosi in Finanza nel 1997, la guida attraverso la feroce crisi finanziaria russa del 1998 mantenendola lontana dai bond governativi e dalle politiche creditizie espansive che avevano rovinato altri istituti.

La svolta avviene nel 2000, quando Melnichenko trasforma una parte di Mdm in Mdm Group, un colosso degli investimenti industriali in tre settori: produzione di gasdotti, carbone e fertilizzanti. Lo fa acquisendo una cinquantina di aziende in disgrazia, soprattutto nel settore energetico e minerario, non toccato ancora — e ancora in questa distanza dai beni ex statali è la chiave del successo di Melnichenko — dall’influenza politica che dominava già altri settori. Quasi nulla, degli asset comprati da Melnichenko, era di provenienza statale.

Ora l’Unione Europea lo ha incluso in una nuova bordata di sanzioni. «Industriale russo, proprietario del colosso EuroChem Group e della compagnia carbonifera Suek», recita la gazzetta ufficiale dell’Unione. «Melnichenko fa parte del circolo di uomini d’affari più influenti in Russia, con strette relazioni con il governo. Pertanto è coinvolto in settori economici che procurano una cospicua fonte di reddito al governo russo, responsabile della destabilizzazione dell’Ucraina». Melnichenko, si legge ancora, «ha incontrato il presidente Putin e altri membri del governo russo per discutere l’impatto delle sanzioni occidentali: il fatto che, insieme a soli altri 35 uomini d’affari, sia stato invitato a questa riunione, mostra che è un membro della cerchia più ristretta di Vladimir Putin, e che sostiene le azioni (…) contro l’Ucraina».

12 marzo 2022 (modifica il 12 marzo 2022 | 15:31)

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Il super yacht a Marina di Carrara sarebbe proprio di

Il super yacht a Marina di Carrara sarebbe proprio di

Secondo diversi esponenti dell’intelligence lo Scheherazade, uno yacht da 700 milioni di dollari ormeggiato da settembre a Marina di Carrara, potrebbe essere del presidente russo

La certezza ancora non c’è. Ma le agenzie di intelligence statunitensi hanno trovato «i primi indizi» che porterebbero a dire che sì, il super yacht Scheherazade ancorato nel porto di Marina di Carrara è riconducibile a Vladimir Putin.

L’informazione — riportata dal New York Times — arriva dopo che lo stesso quotidiano aveva dato la notizia delle indagini da parte delle autorità italiane sulla proprietà del lussuoso panfilo, lungo 140 metri, con una stazza di 10.167 tonnellate e un valore di almeno 700 milioni di dollari. In una nota successiva a quelle prime notizie, The Italian Sea Group — società della nautica di lusso con sede in Toscana — aveva invece smentito che lo yacht fosse del presidente russo, e aveva spiegato di dover ancora «incassare 6 milioni di euro relativi al saldo consegna nave, prevista nei primi mesi del 2023» e che «il soggetto contraente non rientra tra quelli colpiti da sanzioni internazionali».

Al momento, dunque, la proprietà dello yacht — che l’equipaggio chiamerebbe «la nave di Putin» — resta misteriosa: né la società che cura la manutenzione, né la guardia di finanza hanno comunicato ad ora chi sia il suo padrone e neppure la sua nazionalità.

Lo Scheherazade — un nome che fa riferimento alla protagonista delle Mille e una Notte, ma anche a una suite sinfonica composta nel 1888 dal compositore russo Rimskij-Korsakov — si trova attualmente in cantiere per attività di manutenzione, e avrebbe dotazioni da capo di stato: una piattaforma di atterraggio per elicotteri e un sistema per intercettare i droni.

L’intelligence Usa non ha condiviso con il New York Times quali siano gli indizi che a loro parere collegano lo yacht al presidente russo, né se o quanto spesso l’abbia utilizzato. È possibile che Putin possa avere il controllo del panfilo attraverso complessi schemi societari.

Putin ha passato molto tempo, durante la pandemia, a Sochi, sul Mar Nero. Lo Scheherazade è stato a Sochi nelle estati del 2020 e del 2021.

Le autorità italiane hanno già raccolto documenti sulla proprietà della barca, dovrebbero presentarle al governo che dovrà poi capire se procedere al sequestro o meno, in base alle sanzioni varate nei giorni scorsi.

Articolo in aggiornamento…

12 marzo 2022 (modifica il 12 marzo 2022 | 09:51)

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Apple, svolta nei pagamenti: con Tap to Pay gli Iphone diventano Pos portatili

Apple, svolta nei pagamenti: con Tap to Pay gli Iphone diventano Pos portatili

Il servizio non richiede hardware aggiuntivi per le transazioni. Ora è attivo negli U.S.A., presto potrebbe essere disponibile anche in Europa

Pagamenti sempre più a portata di mobile phone. L’apripista è ancora una volta la Apple che, dopo le prime sperimentazioni, ha finalmente dato il by means of e annunciato il debutto del servizio Tap to Pay per i suoi iPhone. Con questa funzionalità anche i commercianti potranno accettare pagamenti effettuati non solo attraverso Apple Pay, ma anche carte di debito e di credito utilizzando un telefono. Di fatto i device elettronici assumono sempre più la funzione di veri e propri Pos portatili, semplificando notevolmente lo svolgersi delle transazioni. Al momento il servizio è già attivo negli Stati Uniti e non è escluso che prossimamente possa estendersi anche advertisement altre realtà geografiche, come l’Europa.

I pagamenti contactless possono fare così un passo avanti in termini di digitalizzazione, con gli utenti che potranno avvalersi anche dei wallet digitali. Ai commercianti, grandi o piccoli che siano, basterà scaricare e avviare un’applicazione specifica, realizzata direttamente da Apple. Dal modello XS in poi non ci sarà alcun problema di compatibilità, così da permettere ai clienti di un qualsiasi place o negozio di pagare semplicemente avvicinando il proprio strumento di pagamento, che sia un modello differente di mobile phone, uno smartwatch o una carta di pagamento contactless all’iPhone del titolare del servizio. La tecnologia è sicura e garantita, mantenendo anche la totale privacy sull’oggetto della transazione e su chi la effettua. L’azienda statunitense Stripe, infrastruttura software che permette a privati e aziende di inviare e ricevere pagamenti unicamente attraverso il web, ha già annunciato di voler adottare il nuovo servizio, ma è molto probabile sia la prima di molte altre. Il servizio associato alla tecnologia del chip Nfc (Near Field Communication) può infatti integrare Tap to Pay con altri software, come per esempio le app di terzi. Oltre a Stripe, anche Shopify avrebbe mostrato interesse per la nuova opportunità offerta ai pagamenti digitali. “Sicurezza e comodità”, con queste qualità il vicepresidente di Apple Pay e Apple Wallet, Jennifer Bailey, ha sintetizzato questa piccola rivoluzione per i pagamenti. “Tap to Pay permetterà ad aziende grandi e piccole di velocizzare le transazioni e far crescere la propria attività con un sistema sempre più veloce per ricevere i pagamenti in totale trasparenza. Favorendo ulteriormente i pagamenti digitali, ben individuabili e tracciabili”.

9 febbraio 2022 (modifica il 10 febbraio 2022|09:29)

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Vladimir Putin, i segreti del bambino che giocava col topo

Vladimir Putin, i segreti del bambino che giocava col topo

di Paolo Valentino, foto di Konrad Rufus Müller

Bambino povero e ribelle, a 16 anni si presentò al Kgb per esser arruolato. Ecco come un uomo dalla vita oscura è diventato un tiranno consumato dalla fame di grandezza per la Russia e sé stesso

Nulla distingue la casa al numero 12 di Ulitza Baskova, nel cuore di San Pietroburgo, dal resto degli anonimi edifici che le stanno accanto. L’unico segnale è che non è possibile visitarla. Negli Anni 50 era una komnunalka, una di quelle abitazioni nate dalla suddivisione dei grandi appartamenti signorili dell’epoca zarista, dove nell’Unione Sovietica più nuclei familiari convivevano, uno per stanza, condividendo cucina, bagno e corridoio. Vladimir Putin vi è nato e cresciuto, nella città che allora si chiamava ancora Leningrado. In condizioni così modeste, suo padre era operaio in una fabbrica di treni, che la caccia ai topi in cui si distingueva non era solo il gioco di un’infanzia povera, ma una continua lotta per non farli dilagare. Un giorno il giovane Vladimir ne inseguì uno particolarmente grosso sulle scale con un bastone in mano, fino a costringerlo in un angolo. All’improvviso il ratto gli si lanciò contro sfiorando la sua testa e con un balzo riuscì a fuggire. L’incidente, avrebbe detto Putin nell’unica autobiografia scritta con alcuni giornalisti nel 2000, gli diede una lezione di vita, mai dimenticata: «Ognuno dovrebbe tenerlo a mente: mai mettere qualcuno in un angolo».

Ucraina-Russia: le ultime notizie sulla guerra

La lezione del topo

Il 24 febbraio scorso il presidente russo ha ordinato la più grande azione militare di terra in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una brutale guerra di aggressione contro l’Ucraina, decisa contro ogni logica razionale, in un azzardo geopolitico dove i rischi e costi si stanno rivelando molto più alti di un’effimera definizione di vittoria. E forse memore proprio del famoso topo, Putin l’ha motivata dicendo di esservi stato costretto, poiché «la Russia non aveva altra scelta». Andare indietro nella biografia dell’uomo che si è auto-investito della missione di riunificare il Russkij Mir, il mondo russo separato dalla fine dell’Unione Sovietica, ultima incarnazione del sogno imperiale di una Russia eterna, è fondamentale per capirne il mistero. La vita di Vladimir Putin è infatti costellata di “Harte Wendungen ”, le svolte traumatiche dipinte da Paul Klee, che ne hanno influenzato fortemente la personalità, fino a farla scivolare in una sorta di autocrazia paranoica che lo avvicina ai più spietati despoti della storia russa, da Pietro il Grande a Stalin.

La svolta dell’ex hooligan

«Ero un hooligan, un ragazzo di strada», racconta di sé il leader del Cremlino. Così scatenato che un giorno Vera Dmitrievna Gurevich, la maestra della scuola elementare, andò dal padre per parlargli di quel ragazzo molto intelligente ma con la tendenza a perdersi. Il colloquio all’evidenza servì. Perché all’improvviso, all’età di 11 anni, il piccolo Volodia cambiò. Diventò il più bravo della classe in tedesco, iniziò a fare sport. Un naso rotto lo convinse che non era fatto per la boxe. Fu nelle arti marziali che trovò la vera passione: «Il judo mi ha tolto dalla strada, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto Anatoly Rakhlin, il mio primo maestro». Con lui ha appreso il kuzushi, movimento che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo, una tecnica che ha usato anche in politica. L’idea di fare la spia gli venne presto. Una mattina, all’età di 16 anni, si presentò all’Ufficio del Kgb a Leningrado chiedendo cosa dovesse fare per lavorare lì. «Primo non prendiamo persone che vengono da noi di loro iniziativa» rispose il funzionario «e secondo si viene da noi o dopo essere stato nell’esercito oppure dopo aver studiato all’università». «Studiato cosa?», chiese il ragazzo. «Che so? Legge», disse quello forse con l’intenzione di toglierselo di torno. E così fu.

Tenente colonnello del Kgb in 5 anni

Nel 1975, fresco laureato in Diritto internazionale all’Università di Leningrado, Putin venne assunto dai servizi segreti sovietici. Cinque anni dopo, ormai tenente colonnello, sposato con l’ex hostess dell’Aeroflot Ludmilla Alexandrovna Skrebneva e già padre di una bambina, fu mandato come capo missione a Dresda, nella Ddr, con l’incarico di raccogliere informazioni su dissidenti e valutare le perfomance dei colleghi. Come nome in codice si scelse Platov, da quello di un generale che comandava i cosacchi nella guerra contro Napoleone. Al violoncellista e grande amico Sergeij Roldugin, che un giorno gli chiese in cosa consistesse il suo lavoro al Kgb, rispose: «Ero uno specialista in relazioni umane». La vita di Vladimir Putin si riassume intorno a quattro città del destino: Leningrado-San Pietroburgo sulla quale torneremo, la tedesca Dresda, Mosca e Sochi sul Mar Nero, vetrina del suo potere imperiale.

QUANDO FU ELETTO PRESIDENTE DISSE: «DEVI COLPIRE PER PRIMO E COSÌ DURAMENTE CHE IL TUO NEMICO NON POTRÀ RIALZARSI»

La capitale della Sassonia gli è rimasta nel cuore. Anche se è lì che il suo universo cominciò a oscillare. Erano gli anni della perestrojka di Gorbaciov, che i capi comunisti della Germania Est rifiutarono di seguire. La notte del 5 dicembre 1989, meno di un mese dopo la caduta del Muro di Berlino, il tenete colonnello Putin, che da settimane ormai aveva trascorso giorni e notti bruciando documenti riservati, chiamò la guarnigione sovietica di stanza a Potsdam chiedendo aiuto e sollecitando un intervento armato. Una folla inferocita aveva circondato la palazzina del Kgb e minacciava di assaltarla. La risposta fu negativa: «Aspettiamo ordini da Mosca, ma il centro tace».

RACCONTÒ: «LASCIARE IL KGB FU LA SCELTA PIÙ DOLOROSA DELLA MIA VITA». MA POI ELTSIN GLI APRÌ LA STRADA AL CUORE DEL PAESE

Quella frase ha segnato per sempre la sua vita. La paralisi del potere e il caos della piazza sono stati da allora i suoi incubi. Come disse nel 2000, l’anno in cui fu eletto presidente della Russia, «in quelle circostanze funziona una cosa sola: devi colpire per primo e colpire così duro che il tuo avversario non dev’essere più in grado di reggersi in piedi». «Avremmo evitato molti problemi» aveva aggiunto «se non avessimo lasciato così frettolosamente l’Europa orientale». Il più macroscopico, secondo Putin, fu il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando la secessione delle Repubbliche, soprattutto di quelle slave, «fece dei russi il più grande gruppo etnico del mondo a essere diviso da confini di Stato». In quella notte nacque probabilmente la missione di volerlo riunificare.

Ritorno a San Pietroburgo

Aveva 38 anni nel 1990, Vladimir Putin, quando tornò sulla Nieva insieme a Ludmilla e alle due figlie piccole, portandosi dietro una lavatrice usata caricata sopra il tetto della Volga. A dargli un nuovo lavoro fu Anatoly Sobchak, il nuovo sindaco e uno dei personaggi più in vista della nuova Russia. Fu lui a cambiare il nome della città da Leningrado all’antico San Pietroburgo. Diventò il suo vice. Fu nel suo ufficio allo Smolny, dove aveva appeso un ritratto di Pietro il Grande al posto di quello di Lenin, che un giorno della primavera 1991, in attesa di essere ricevuto dal borgomastro per un’intervista, Putin preparò il tè dal Samovar per me e la mia interprete Natasha Petrovna, parlando con molta nostalgia dei suoi anni in Germania. Nella città più europea della Russia nacque la “banda degli amici pietroburghesi”, la filiera in parte legata al Kgb che l’avrebbe accompagnato per il resto della vita.

La banda dei pietroburghesi e Medvedev

Lavoravano tutti insieme per Sobchak: il futuro premier e presidente Dmitrij Medvedev, il futuro ministro delle Finanze Alexeij Kudrin, il capo di Gazprom Igor Sechin, il boss dello sport russo Vitaly Mutko, il capo della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, quello dei servizi segreti Sergeij Naryshkin. Poi c’erano i compagni di judo, i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris, che sarebbe diventati i “suoi” oligarchi. E non ultimo c’era il proprietario di un ristorante che lui frequentava, Egvenij Prigozhin, detto il cuoco di Putin, miliardario grazie ai catering per il Cremlino e fondatore della Wagner, la milizia mercenaria che interviene nel mondo, dalla Siria alla Libia, in nome e per conto di Mosca. Ma un’altra città del destino si profilò a quel punto all’orizzonte per Putin, che nel 1991, alla caduta dell’URSS, aveva lasciato il Kgb, «la decisione più dolorosa della mia vita». Quando Sobchak, travolto dalle accuse di corruzione, perse le elezioni del 1996, complici i buoni uffici di Kudrin già al ministero delle Finanze, per lui si aprì un posto nell’amministrazione presidenziale di Boris Eltsin.

Poche parole

Gli bastarono meno di due anni per imparare i codici di comportamento non scritti del Cremlino. Discreto, efficiente, di poche parole, sempre con la soluzione pronta. Già nel 1998 Eltsin lo nominò capo del Fsb, erede del Kgb. Sfruttò l’incarico alla perfezione, soprattutto mostrando totale lealtà al capo. Quando il Procuratore federale Yurij Skuratov aprì un’indagine per corruzione sulla famiglia di Eltsin, un video andò in onda improvvisamente su tutte le televisioni russe: mostrava Skuratov senza veli, in azione con due acrobatiche prostitute. Era il più classico dei kompromat nell’arsenale della Lubjanka. Fu Putin in persona a spiegare in tv che il filmato non era un falso. Skuratov si dimise poche ore dopo. Eltsin lo ricompensò meno di un anno dopo, nominandolo a sorpresa primo ministro. Alla vigilia di Capodanno del 1999, lo designò suo successore al vertice della Russia. Poche ore prima che avvenisse il passaggio delle consegne al Cremlino, Putin celebrò con i suoi ormai ex “colleghi” del Fsb l’anniversario dei servizi sovietici: «Il gruppo che avete mandato in missione di infiltrazione in seno al governo, sta per compiere la sua missione», disse nel brindisi, scherzando ma non troppo.

A capo della Federazione Russa: «Riporteremo l’ordine»

Il 23 marzo 2000, dopo un breve interim al vertice, Vladimir Putin venne eletto presidente della Federazione russa con il 52,9% dei voti. «Riporteremo l’ordine», fu la promessa. Il suo cruccio era l’onore perduto della Russia, ormai declassata dal ruolo di Superpotenza e privata di quella uvazhenie, il rispetto che per i russi è bisogno esistenziale. Nei primi anni alla guida della Russia, oltre a ricostruire economicamente e politicamente un Paese annichilito dal Far West degli Anni 90, mettere in riga gli oligarchi e reprimere brutalmente la ribellione della Cecenia, Putin aveva avviato un dialogo stretto con gli Usa e l’Occidente, culminato nell’accordo di cooperazione Nato-Russia, addirittura arrivando a teorizzare che un giorno lontano Mosca avrebbe potuto far parte dell’Alleanza.

JOE BIDEN LO INCONTRÒ ANNI FA: «LA GUARDO E NON CREDO CHE LEI ABBIA UN’ANIMA». LA RISPOSTA: «VEDO CHE CI CAPIAMO BENISSIMO». LA SVOLTA ANTI OCCIDENTALE

La svolta avvenne nel 2007, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, quando lanciò un attacco a tutto campo contro gli occidentali, denunciando l’ordine creato dopo la Guerra Fredda, l’invasione americana dell’Iraq e soprattutto l’espansione della Nato fino ai confini della Russia, agli occhi di Putin un tradimento delle promesse fatte nel 1990 a Gorbaciov. Da quel momento, il leader russo iniziò l’inversione di rotta, avvitandosi in una spirale sempre più autoritaria all’interno, nazionalista e aggressiva all’esterno. Nel 2008 lanciò la prima azione militare nello spazio ex sovietico, occupando l’Abkhazia, territorio della Georgia. Ci sono molti fattori dietro l’involuzione di Putin e la sua metamorfosi in un leader sempre più autoritario. Le primavere arabe e la fine violenta di Gheddafi fecero su di lui una forte impressione. La prima rivoluzione ucraina, quella color arancione, fu un altro segnale devastante per il leader del Cremlino, che nel Paese vicino vedeva un pericoloso esempio di ribellione, rivendicazioni democratiche, caos.

Il giudizio e la rivoluzione di Euromaidan

Il fallito reset con l’Amministrazione Obama fu una conseguenza di questo cambiamento personale e politico. Nel 2011, quando da primo ministro (nel quadriennio in cui cedette la carica di presidente a Dmitrij Medvedev) lo incontrò per la prima volta a tu per tu, l’allora vicepresidente Joe Biden corresse radicalmente il giudizio che ne aveva dato George W. Bush anni prima: «L’ho guardato negli occhi e ho potuto vedere la sua anima». Biden ebbe un’impressione opposta: «Signor primo ministro, la sto guardando negli occhi e non credo che lei abbia un’anima». Putin rispose sorridendo: «Vedo che ci capiamo benissimo». Dopo l’annessione della Crimea nel 2014, decisa in seguito alla rivoluzione di Euromaidan a Kiev che lui definì un putsch orchestrato dagli americani, nulla è stato più lo stesso. Le sanzioni occidentali hanno accelerato la sua narrazione di un Paese accerchiato, che gli è valsa altissimi livelli di consenso. La polemica di Putin contro l’Occidente decadente e depravato si è fatta sempre più forte. Mentre all’interno, chi non si allineava come Alexeij Naval’nyj veniva perseguitato e subiva attentati alla propria vita.

Le Olimpiadi degli oligarchi

Fu sul Mar Nero, nella quarta città del destino, che Vladimir Putin mise in scena la sua nuova dimensione imperiale, con i Giochi Olimpici invernali del 2014, una stravaganza miliardaria pagata dagli oligarchi, che lanciarono la località prediletta da Stalin come nuova capitale diplomatica della Russia. In quegli anni i leader del mondo passarono tutti da lì, da Erdogan, a Netanyahu, ad Angela Merkel, che Putin, conoscendone la paura dei cani, accolse facendo entrare nella stanza il suo labrador. E fu a Sochi che insieme ai suoi generali mise a punto prima l’annessione della Crimea e poi nel 2015 l’avventura in Siria, incoraggiato dai tentennamenti dell’Amministrazione Obama. Scommetteva e vinceva. «Putin è stato fortunato e questo è pericoloso per un giocatore d’azzardo», dice Gleb Pavlovski, politologo che ha lavorato con lui al Cremlino prima di diventarne oppositore.

L’isolamento dello Zar

Sono passati 22 anni dall’arrivo al vertice della Russia. Putin ha cambiato la Costituzione, ipotecando il potere fino al 2036. Il cerchio dei suoi consiglieri si è fatto sempre più piccolo, la sua distanza dal mondo reale sempre più grande. Lo Zar è solo. Il consenso scricchiola, complice una situazione economica in costante peggioramento. La pandemia ne ha accentuato l’isolamento fisico e mentale. È diventato imperscrutabile ai suoi stessi collaboratori. Nessuno sa quali saranno le prossime decisioni. Alla vigilia dei 70 anni, con una condizione di salute diventata segreto di Stato e secondo molti a rischio, Putin ha fretta. Vuole unificare il Russkij Mir, salvare la Russia eterna, rifarne una Grande Potenza. Annientando nel sangue l’Ucraina, la nazione sorella che “pretende” di scegliere da sola il proprio destino, vuole completare la missione. Ma come ricorda Pavlovski, «quando giochi alla roulette russa, pensi che Dio sia con te, fino a quando non arriva il colpo».

11 marzo 2022 (modifica il 11 marzo 2022 | 18:13)

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