di Alice Formica, Liceo Scientifico Vittorio Veneto, Milano

Il racconto vincitore del premio Astalli 2021 al racconto di Alice Formica del liceo scientifico Vittorio veneto di Milano «Strade di cicatrici»

Centinaia di studenti delle scuole superiori di oltre 15 città sono stati i protagonisti il 27 ottobre de «La scrittura non va in esilio», il concorso letterario lanciato dal Centro Astalli per sensibilizzare gli allievi delle scuole superiori sul tema delle migrazioni. Ma anche una grande festa della scuola all’ Auditorium dell’Istituto Massimiliano Massimo a Roma. È, infatti, l’occasione per premiare non solo gli studenti vincitori del concorso letterario, anche i giovanissimi ragazzi di «Scriviamo a colori» per le scuole medie. Sono intervenuti Marino Sinibaldi (presidente Centro per il Libro e la Lettura), Flavia Cristiano (presidente Ibby Italia), Valerio Cataldi (presidente Carta di Roma), l’attrice Donatella Finocchiaro, gli scrittori Fabio Geda e Giorgio Brizio, e Maria Benedicta Chigbolu (atleta olimpica Tokyo 2020 nella staffetta 4 x 400). A premiare i vincitori, oltre a loro, Padre Camillo Ripamonti, il presidente del Centro Astalli, e Mauro Biani, che ha illustrato il racconto primo classificato «Strade di cicatrici» di Alice Formica, del Liceo Scientifico Statale Vittorio Veneto di Milano, che è diventato una graphic novel, pubblicata dal Centro Astalli. L’evento è stato anche l’occasione per riconoscere il titolo di Student Ambassadors del programma europeo «Change» a tutti gli studenti che hanno preso parte al progetto del JRS Europa negli ultimi due anni e per consegnare l’attestazione di«Scuola amica dei rifugiati» agli istituti che hanno promosso tra gli studenti la realizzazione di iniziative di sensibilizzazione con l’obiettivo di creare una società più giusta, più aperta e più accogliente. Tutti i racconti vincitori sono raccolti in una pubblicazione a cura del Centro Astalli e sono disponibili anche su www.centroastalli.it. (Lilli Garrone)

Il mio corpo è una mappa che racconta una storia. La racconta per me che ho perduto la voce, al buio, dove non arriva la luce. Il primo segno su questa cartina l’ha lasciato in mezzo alle gambe la mia terra natia, l’Etiopia. Avevo nove anni quando ho smesso di essere bambina, di essere donna e sono diventata un oggetto della mia cultura. Avevo nove anni quando mia madre ha preso me e la mia sorellina e ci ha allontanate dal villaggio, ci ha detto che era un’occasione importante, e allora avevo deciso di mettermi il vestito buono, quello con un solo buco sull’orlo del tessuto verde, un buco piccolo piccolo in cui ci passa giusto il mignolo. Mia mamma camminava avanti a passo svelto con Fara aggrappata alla gonna lunga che le arrancava dietro e me al fianco. Erano rari gli eventi importanti li, non succedeva mai niente nel mio paesino, i giorni si inseguivano tutti uguali, lenti, caldi, inesorabili ma felici. Camminando siamo arrivate in un pianoro roccioso con pochi arbusti e qualche albero secco, di fianco a una grande roccia piatta c’era una donna, con un sacchetto di juta in mano, due occhi duri come le pietre e un habesha kemis logoro del colore della terra, qualche passo più in là c’era la nonna, lei e mamma non si sono neanche salutate, ma non ci ho fatto molto caso ero troppo emozionata. Chissà cosa conteneva quel sacchetto, magari un regalo per me, un bel vestito o un gioco nuovo forse, i miei sono molto belli ma tutti sporchi. Non stavo più nella pelle.

Mia madre però non sembrava condividere la mia emozione, e neanche mia sorella che anzi aveva iniziato a piagnucolare, ma lei era sempre stata una rogna, non era forte come me. Finalmente la donna con la habesha apre la bocca «Prima la grande» dice, a quelle parole mia madre si allontana in fretta senza neanche guardarmi e si tira Fara dietro, mentre nonna si avvicina a me e mi prende stretta in braccio. La donna apre il sacchetto e inizia ad ordinare sulla pietra liscia un paio di forbici affilate e rosse di ruggine, una lametta graffiata e alcune spine di qodax, ne conto cinque, «Nonna?» chiedo preoccupata, ma lei non mi risponde e evita il mio sguardo, poi mi solleva e mi blocca su una roccia con tutto il suo peso. Inizio ad agitarmi ma mia nonna ha sempre avuto una presa decisa e mi preme con più forza contro il masso, la donna si avvicina, mi spalanca le gambe e solleva le forbici, inizio a urlare. Scalcio, mi divincolo e strepito ma non serve a niente, sono troppo debole, all’improvviso sento un dolore lancinante in mezzo alle gambe e non ci vedo più, urlo di nuovo, urlo e urlo ma nessuno mi sente, a nessuno interessa. Sento troppo dolore, non ce la faccio più, stringo il mio vestitino verde guardo alto nel cielo e svengo col sole impresso nelle retine. Mi sveglio, non riesco a muovere le gambe, sono nel letto con mia madre a fianco, mi lascia vicino del pane caldo e un bicchiere di latte. «Riposa Saida» mi dice, ed esce dalla stanza, mi guardo intorno confusa, mia sorella giace poco più avanti, immobile, ma non riesco a raggiungerla. In mezzo alle gambe ho come un fuoco, brucia sempre di più e non sembra smettere, mi faccio coraggio e allargo le gambe a fatica, guardo in basso. Qualsiasi cosa ci fosse lì sotto prima ora non c’è più, al suo posto corre una lunga linea rossa slabbrata, tenuta insieme da pochi punti neri.

Una linea sottile che ricorda a non finire il ruolo di una donna in una società maschile. Scivolando più in su, solcato il basso ventre e aggirato l’ombelico, se si gira verso destra si può imboccare una strada bianca e irregolare che risplende sulla mia carnagione scura. Quella via la devo ai carcerieri libici, anche se io non ricordo niente, mi ha raccontato tutto Eno. Il mio con Eno è stato un incontro infelice, ci siamo trovate in carcere, crimine: essere in cerca di una vita che si possa definire tale. Entrambe dopo un massacrante viaggio stipate sul retro di un furgone, insieme a decine di corpi sudati e ansanti, ci saremmo dovute trovare nei pressi di Tripoli, e invece eravamo incrostate di sporco sul terreno freddo di una cella ammassate tra scarafaggi e uomini, o forse c’erano solo scarafaggi, non ricordo. Io e Eno ci siamo trovate subito, parlavamo una lingua simile e sembravamo avere circa la stessa età, in realtà non so quanti anni avevo, forse venti, in quel buco di cemento il tempo non aveva più significato, comunque eravamo due donne, giovani, e dovevamo restare unite. Parlavamo poco io e lei, il nostro era un accordo silenzioso, cercavamo solo di sparire dentro i muri, mi ha parlato solo due volte. La prima è stata a qualche giorno dal nostro patto, eravamo strette l’una all’altra nell’angolo più buio della cella quando dopo avermi fissato coi suoi larghi occhi scuri mi ha detto sottovoce «Sei bella» io le ho accarezzato i capelli sporchi e le ho risposto «Anche tu», e lei con uno sguardo di infinita pietà ha sussurrato «Per fortuna no». Quella notte non dormii, le parole della mia compagna mi si contorcevano dentro, cariche di una consapevolezza che cercavo di negare, di evitare. Quella notte tagliai i miei lunghi capelli neri perdendo un altro po’ di libertà in cambio di speranza, speranza di sparire, speranza di non essere visti. Eno era lì da molto più tempo di me, aveva imparato a sue spese come funzionavano le prigioni il Libia e aveva imparato a evitarsi il peggio, ma non è bastato a salvare me.

Erano un po’ di giorni che due carcerieri continuavano a passare davanti alla cella in cui eravamo stipati come bestie, guardavano dentro, ridevano e ogni tanto si portavano via qualcuno, non tornavano mai quelli che si prendevano, o se tornavano tornavano a pezzi. Un giorno è toccato a me, io ricordo solo di essere stata strappata dal fianco di Eno, tirata con violenza per i capelli dai due carcerieri, ero come una bambola di pezza nelle loro mani violente, non ho neanche urlato, non ci volevo credere che stesse succedendo proprio a me. L’ultima cosa che ricordo è il pavimento freddo che bacia con forza la mia guancia, e poi solo dolore. Io ricordo il dolore e Eno invece ricorda le urla, «Come quelle di un maiale sgozzato» è stata l’unica altra cosa che mi ha detto, anche perché non aveva più senso parlare, i carcerieri si erano presi anche la mia voce. Quando mi hanno ributtata tra gli insetti, come una bambola rotta, non riuscivo a muovermi, le mie gambe erano paralizzate e agonizzavo dalla vita in giù, è solo grazie a Eno se sono viva, si è presa cura di me e del lungo taglio che ora mi attraversava la pancia poco sotto i seni, mi ha guarita nel corpo, ma il mio spirito è rimasto spezzato.

Non sono mai riuscita a ringraziarla, tutto quello che potevo dirle assomigliava più al suono di un qualche giocattolo rotto che a una voce vagamente umana. Io alla fine sono riuscita a uscire da quel girone infernale e a raggiungere Tripoli, il mare, la salvezza, Eno no. In Libia non serve sperare, puoi solo pagare e aspettare, aspettare la morte o il mare. Se si decide di proseguire per la tortuosa strada bianca e risalire lungo la spina dorsale fino alla spalla sinistra, c’è una piccola linea quasi invisibile, compatta e ben fatta. É una cicatrice che sa di sale, sale del Mediterraneo. Erano giorni che sedevamo sul gommone sotto il sole implacabile, la plastica degli scafi era calda come le nostre pelli ustionate, il cibo era finito e l’acqua scarseggiava, l’acqua dolce si intende, quella salata era fin troppa; ma eravamo vicini, o così ci dicevano. Dopo quelli che credo fossero tre giorni, giorni di speranza, di dubbi e di paure abbiamo avvistato una nave con un’enorme scritta rossa che campeggiava sulla fiancata: «SAR»; venivano verso di noi. Si sono fermati vicino al gommone, che ora sembrava un alveare impazzito, tutti avevano iniziato a sporgersi verso la nave e a sbracciare come ossessi, nella calca mi sono ferita la spalla, ma me ne sono accorta solo in mare, quando a contatto col sale ha iniziato a bruciare, ma non importava adesso, ora importava solo salire sulla nave. Siamo stati tirati in salvo e aiutati, una donna gentile si è presa cura di me, mi ha disinfettato la spalla e l’ha cucita con cura e attenzione, poi sorridendomi è andata ad aiutare più in là. Ero salva. Ce l’ho fatta, sono sopravvissuta, le mie ferite sono ora guarite e racconteranno per sempre storie di infinita violenza, ma nessun sorriso gentile basterà mai a curare l’agonia che provo nel petto ogni giorno, ogni volta che percorro la mia mappa, la mappa che racconta la mia vita. Nessuno riuscirà a curare il dolore di essere rifiutati dalla terra che doveva darti amore.

27 ottobre 2021 (modifica il 27 ottobre 2021 | 12:49)

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