La vita lavorativa può essere riscritta. Lo ha dimostrato la pandemia e lo dimostrano i numerosi dibattiti su questo tema, emersi nel post Covid. Dallo smartworking al lavoro ibrido, dalle grandi dimissioni ai nuovi uffici, ognuno di noi si sta interrogando su come migliorare la propria vita, anche riducendo la settimana lavorativa. Prima ancora del Covid, quando Sanna Marin era ministra dei Trasporti finlandesi, durante un panel mise la questione sul piatto: è necessaria una settimana lavorativa di quattro giorni e sei ore lavorative al giorno. Marin sosteneva infatti che orari più brevi di lavoro possano essere compensati da una maggiore produttività e da una maggiore occupazione. Lavorare meno per lavorare tutti, mantenendo più o meno lo stesso salario. Un vecchio adagio che ora che è al governo però, è sparito dai suoi radar. La più giovane prima ministra della Storia, dopo un tam tam mediatico che ha ripreso quelle sue vecchie dichiarazioni, ha smentito che questa ipotesi sia nell’agenda dell’attuale coalizione finlandese. Ma il tema di lavorare meno (e meglio) è ripreso a circolare ora nel post Covid esattamente come a ogni uscita della classifica dell’Ocse che certifica quanto sappiamo già: orari di lavoro molto lunghi possono danneggiare la salute personale, compromettere la sicurezza e aumentare lo stress. E dopo la pandemia globale, con lo smartworking che ha risucchiato le nostre vite, il modello dei 4 giorni a settimana si è riproposto ovunque tanto da far parlare del «movimento globale dei 4 giorni di lavoro a settimana» (copyright Forbes).

In Scozia il governo ha annunciato l’intenzione di stanziare 10 milioni di sterline per finanziare le sperimentazioni in azienda. In Spagna a proporlo è stato Más País, il piccolo partito di Iñigo Errejón, transfuga dell’Unidas Podemos del vicepresidente del governo Pablo Iglesias. «Viviamo tristi, annegati ed esausti – ha scritto su twitter conquistando migliaia di like – Il nostro modello produttivo è scaduto e per migliorarlo proponiamo di ridurre la giornata lavorativa a 32 ore settimanali e mettere la salute mentale al centro dell’agenda politica». Un dibattito completamente assente nelle agende politiche di molti Paesi europei dove però ci sono aziende che stanno già testando un modello produttivo diverso.

Il marchio spagnolo di moda Desigual ha approvato a larga maggioranza, l’86% dei lavoratori, la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni, dal lunedì al giovedì, con l’opzione anche di usare lo smart working. Ma in questo caso la modifica del modello produttivo porterà a una diminuzione dei salari di circa il 6,5%. Un modello rischioso e criticato da più parti. Molto più lontano, in Giappone, è stata Microsoft a sperimentare le 32 ore nell’estate del 2019 portando a casa una produttività incrementata del 40% e una produzione di CO2 scesa del 20% (per la riduzione dell’inquinamento che ne consegue). Una rivoluzione se pensiamo alla cultura giapponese dove la morte da superlavoro, considerato un vero problema sociale, ha persino un nome: Karoshi. In Nuova Zelanda ci sta provando Unilever, 4 giorni alla settimana di lavoro con un test che si concluderà alla fine di quest’anno. «Se si finisce per lavorare 4 giorni con orari molto più lunghi allora non abbiamo raggiunto lo scopo – ha precisato al Financial Times Nick Bangs, amministratore delegato di Unilever in Nuova Zelanda -. Si tratta di cambiare radicalmente il nostro modo di lavorare».

Eppure, un confronto politico sindacale sul tema stenta a decollare ovunque. Anche in Italia, tra i primi posti tra i Paesi dell’area Euro, dove si lavorano più ore alla settimana (con 33 ore alla settimana, 3 ore in più rispetto alla media europea di 30 ore. Una media comunque influenzata dalla diffusione di contratti di lavoro part-time e altre forme di flessibilità). Al di sopra della media si trovano anche Irlanda, Portogallo, Slovacchia, Lettonia, Spagna, Slovenia e Lituania. Ma più ore di lavoro non significa maggiore produttività tant’è che il nostro Paese è invece agli ultimi posti per livelli di produttività. La Francia, che ha una delle settimane lavorative legalmente più brevi, è ancora uno dei paesi più produttivi al mondo. Secondo Gallup, società americana di consulenza e analisi, è ovvio che una settimana lavorativa di quattro giorni significhi minor rischio di burnout e un maggiore benessere tra i dipendenti. Ed è proprio per questo che molti manager delle multinazionali stanno prendendo in considerazione una maggiore flessibilità permanente sui luoghi di lavoro. Un’ipotesi basata su ciò che hanno appreso durante il più grande esperimento di lavoro forzato della storia durante il Covid.

«Secondo un nostro studio fatto a marzo 2020 su 10 mila lavoratori a tempo pieno – ha spiegato Gallup – solo il 4% ha dichiarato di lavorare quattro giorni a settimana. L’84% lavora 5 giorni e l’11% sei giorni. Questi ultimi avevano i tassi più alti di burnout ed esaurimento più alti. In quel 4% di lavoratori 4 giorni a settimana, c’era invece il tasso più alto di benessere e salute mentale». Una settimana lavorativa più breve offrirebbe maggiori opportunità per coltivare il benessere sociale, fisico e mentale. Ma secondo Gallup potrebbe non essere l’unica soluzione. Per la società di consulenza il vero problema è che a livello globale 8 dipendenti su 10 sono disincentivati dal lavoro. «Il desiderio di evadere dal lavoro è sintomatico di luoghi di lavoro infelici – ha spiegato -. Inoltre, dato che l’orario flessibile di lavoro e il lavoro ibrido diventeranno sempre più diffusi, non ha più senso legiferare su una riduzione della settimana lavorativa. Occorrerebbe piuttosto investire e migliorare sulle competenze dei manager, fare loro un coaching continuo per avere più consapevolezza del loro ruolo. Se i datori di lavoro di concentrassero sul miglioramento della qualità dell’esperienza lavorativa, potrebbero avere quasi il triplo dell’influenza sulla soddisfazione dei dipendenti rispetto alla riduzione della settimana lavorativa». La vita lavorativa può essere sì riscritta ma come e con quali modalità è ancora tutto da vedere. Imprescindibile sarà il confronto costante con i dipendenti che ora, più che ai soldi, guardano a ben altre priorità: work-life balance, flessibilità e salute mentale.

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