di Giorgio Terruzzi

L’attrice de «Il capitale umano» e di «Doc. Nelle tue mani»: papà non c’è più ma io lo chiamo ancora al telefono

Matilde Gioli. Attrice «per caso». Si trattò davvero di fatalità?
«Me lo domando spesso e le risposte sono cambiate nel tempo. Forse mi trovavo nel posto giusto al momento giusto, stavo accompagnando mio fratello a minibasket e i provini per il film di Virzì, Il capitale umano si svolgevano proprio lì. Però, se guardo il mio percorso professionale mi rendo conto che non fu proprio un accadimento accidentale. Forse c’è una parte inconsapevole, un inconscio che ti guida verso una direzione. Lo capisco oggi per come sento e tratto ciò che fa parte del mio lavoro».

Decise di adottare il cognome di sua madre Francesca. Il babbo, Stefano Lojacono era consenziente?
«Certo. In famiglia abbiamo vissuto ciò che accadeva come un gioco. Mi trovavo in scena per la prima volta, ero completamente avulsa da tutto ciò che riguarda il cinema. Ad un nome d’arte non pensavo proprio. Paolo Virzì, dopo avermi scelta, assunse subito un ruolo importante nei miei confronti, forse perché ero diversa dalle attrici professioniste con le quali era abituato a lavorare. Mio padre stava già male, sarebbe scomparso poco tempo dopo e quando mia madre venne a trovarmi sul set, Paolo, toscano come lei, suggerì di adottare il suo cognome nella sola professione. Era una suggerimento protettivo, Matilde Lojacono in questo modo poteva continuare la propria vita in modo più riservato. Fummo tutti felici di quell’idea».

Tecnica, anima, sfrontatezza. Cosa serve per recitare?
«Serve studiare. Serve appropriarsi della tecnica, farsi una cultura cinematografica, temi sui quali devo ancora progredire. Sono queste le basi utili a tutti. Poi ciascuno mette in campo meccanismi propri. Ho incontrato una quantità di attori che utilizzano metodi individuali. Io mi affido molto all’istinto, evito di insistere con la preparazione, la ripetizione del copione a memoria per lasciare spazio all’improvvisazione e quindi alla naturalezza. Non è una regola, anzi. Sto parlando di ciò che funziona per me e con me».

Il pudore aiuta o complica?
«Se penso alla fisicità, mi accorgo di essere molto aperta, è difficile che mi vergogni. Questo mi permette di affrontare con una certa elasticità una scena delicata. Non dico non ho pudore, ma sul lavoro lo sguardo degli altri non mi blocca. Ho conosciuto colleghi più riservati, diciamo così, che hanno sfruttato un limite apparente in una risorsa. Il trattamento di un personaggio può seguire strade diverse e comunque interessanti, rivelatorie».

Il regista, in quanto padrone del film, sino a che punto va assecondato?
«Per me che partivo dal nulla in termini di esperienza e consapevolezza, affidarsi completamente al regista è stata una necessità. Continuo a vedere questa figura come un direttore d’orchestra che deve avere l’ultima parola su una scena, su ogni particolare, dal colore dei capelli a quelli di un divano. Alcuni attori molto più esperti e autorevoli di me, riescono ad elaborare un personaggio attraverso una presa di coscienza particolare. Questo lavoro può essere accolto da un regista anche se risulta diverso rispetto alle intenzioni iniziali. Non è detto che funzioni ma può offrire esiti eccellenti».

Il mondo del cinema è inevitabilmente maschilista?
«In Italia, abbastanza. Il tema è sul tavolo da tempo e devo dire con piacere che ho notato un cambio di rotta. Poi dipende dagli incontri. Virzì è un regista che cura e attribuisce grande importanza ai ruoli femminili ma su cento film italiani ne troviamo tanti con personaggi femminili un po’ confinati. Mogli di protagonisti, fidanzate di protagonisti, figlie di protagonisti maschili. Credo sia molto difficile esprimere giudizi sulle responsabilità perché stiamo parlando di un argomento che ha a che fare con nodi complessi di una cultura. Spesso certi ruoli femminili non mi sembrano valorizzati, storie interessanti che finiscono per essere trascurate. Ma evidentemente esistono molte persone alle quali va bene così».

Testimonial per una campagna sul congelamento degli ovociti per preservare la fertilità femminile. Quali battaglie è disposta a combattere?
«Mi ha coinvolto la percezione di scarsa consapevolezza che riguarda tante giovani donne: alcune scelte di vita mettono a repentaglio la capacità riproduttiva. Il congelamento degli ovociti per chi deve affrontare cure tossiche credo rappresenti una opportunità. Punto. Non sto affatto dicendo che una gravidanza vada programmata con leggerezza. Ho dato il mio sostegno ad una iniziativa convincente messa in campo da alcuni medici. Per il resto evito di espormi per il gusto di farlo. Credo che ciò che accade sui social istighi ad una certa superficialità, all’adesione istantanea ad una iniziativa, ad una petizione, persino alla solidarietà di fronte ad un lutto. Preferisco percorrere altre strade privatamente. Anche perché odio far finta di conoscere a fondo un tema e dire la mia. Credo si tratti anche di una questione di rispetto nei confronti di chi conosce davvero una dinamica, una realtà, un problema serio».

Il divismo è una conseguenza incontrollabile o è una trappola da evitare?
«Non credo sia una conseguenza obbligatoria. Ci sono varie tipologia di divismo. Alcune persone manifestano un’aura affascinante ma penso si debba fare molta attenzione a non scivolare verso l’arroganza o la presunzione. Cerco di non essere giudicante, per me uno se la può anche tirare, non mi infastidisce. A patto che non perda la misura, l’educazione, l’attenzione verso gli altri. Quando vedo gli eccessi del divismo, vale a dire scortesia nei confronti della troupe, una certa arroganza, capricci di fronte a cento persone, la faccenda si fa insopportabile».

Matilde Gioli, Cavaliere della Repubblica. Beh? Un onore, un titolo senza importanza, una esagerazione?
«Non me lo aspettavo. È una onorificenza che ha deciso di consegnarmi il Presidente Mattarella dopo la mia partecipazione come madrina alla celebrazione del giorno dedicato alla donna, l’8 marzo. Non so quali criteri determinino l’assegnazione dei cavalierati. Talvolta mi sento in imbarazzo, penso che questo titolo sia stato attribuito a persone che hanno affrontato anni di lavoro e sacrifici. Poi metto a tacere le mie vocine interiori e penso che sia stata una decisione spontanea. La accolgo con riconoscenza e soddisfazione».

E comunque i cavalli hanno un peso nella sua vita…
«Un peso enorme. Due anni e mezzo fa girai il film di Giovanni Veronesi, Moschettieri del Re. Metà delle mie scene prevedevano la presenza di cavalli e la produzione mi incitò a fare pratica in un maneggio, indipendentemente dall’utilizzo di eventuali controfigure. Nell’esatto momento in cui mi trovai per la prima volta in sella provai una sensazione di empatia incredibile. Entrai in una specie di trip, decisi di interpretare tutte le scene a cavallo, cadute comprese e dopo due mesi di esperienze sul set mi accorsi che dei cavalli non potevo fare a meno. Cominciai a trascorrere ogni ora libera al maneggio, a cavalcare, spazzolare, pulire i box. Insomma, mai più senza. Mi sono innamorata di un cavallo, Fuego, sono riuscita ad acquistarlo. Appena posso lo raggiungo, lo accudisco, gli parlo, passeggiamo, guadiamo i fiumi. È qualcosa di davvero terapeutico per me».

Non solo un cavallo. Un fidanzato, Alessandro, insegnante di equitazione. Che non sapeva nulla della sua carriera. Conquistata dalla concretezza?
«Esattamente. Tutto ciò che mi tiene agganciata alla realtà ed esula dal mondo che frequento per lavorare mi attrae. Alessandro ha un animo buono e semplice. Ci somigliamo. Condividiamo una capacità di ridere, di gioire delle piccole cose. Ha a che fare con l’universo dell’infanzia, dei bambini. Natura, animali, buon cibo, chiacchiere, sport, risate. Ogni altro privilegio che pure mi riguarda, da un hotel di lusso ad un contesto elegante, produce piaceri più effimeri, roba di poche ore. Nel quotidiano tutto ciò non mi interessa affatto».

Incontri decisivi, persone indimenticabili. Chi le viene in mente?
«La mia famiglia, numerosa e calda; amici che non appartengono al mondo del cinema, e poi tre uomini incontrati sul lavoro ai quali sono molto legata: Diego Abatantuono, Marco D’Amore e Francesco Ghiaccio, regista di Un posto sicuro. Mi hanno accolta, amata, protetta. Generosi in tutto, nei consigli professionali, nelle attenzioni. Angeli, incontri felici, persone care che porto nel mio cuore. Nei momenti di sconforto sono stati loro a darmi la carica, la forza».

Un grave incidente subito in piscina da adolescente, che ha rischiato di paralizzarla, la morte precoce di suo padre. Il dolore cosa può restituire?
«Quell’incidente mi ha tolto tanto perché avevo 16 anni ed ero bloccata con addosso un busto di ferro, una lunga, anticipata quarantena. Però ne parlo con gioia perché rischiavo la sedia a rotelle mentre ora sgambetto, con la sensazione di sfruttare risorse che non pensavo di possedere. Il lutto è una cosa diversa. Pesa di più, ciò che manca non torna e per certi versi è insopportabile. Mio padre non esiste più: il verdetto è definitivo ma non lo accetto, faccio cose strane, lo chiamo al telefono, mi chiedo dove diavolo sia. Non poter parlare con lui produce una tristezza profonda. Con la consapevolezza di aver ricevuto tantissimo da lui, la capacità di amare, di stringerci. Purezza e chiarezza. Questo resta. E ritorna».

Ha 32 anni. Abbastanza per capire quali rischi e quali errori evitare?
«Credo di sì. Magari tra dieci anni scoprirò altro. Ma credo di aver imparato a muovermi nel mondo. Mi pare di essere una persona completamente responsabile delle mie scelte».

21 novembre 2021 (modifica il 21 novembre 2021 | 22:49)

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