Caro Aldo,
l’esecutivo ha varato il provvedimento inerente l’assegno unico. È un primo passo per incoraggiare l’aumento della natalità nel nostro Paese che rischia fra 20 o 30 anni una forte perdita di forza lavoro. Con aumento della spesa previdenziale come evidenziato dall’Ocse. Questa scelta da sola non basta. Si dovrebbe per esempio incentivare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Una donna, se precaria, non mette al mondo figli. E se lo fa è verso i 35-40 anni ovvero quando le viene proposto l’impiego a tempo indeterminato. Poi si dovrebbe potenziare il numero degli asili nido e/o scuole dell’infanzia. Sopratutto nelle aziende private. Che ne pensa?
Andrea Rigoni, Padova

Caro Andrea,
Leggendo la sua mail ho ripensato a quella che mi scrisse qualche mese fa una lettrice di IoDonna. Raccontava che a ogni colloquio di lavoro il primo sguardo dell’«esaminatore» si posava sul suo anulare sinistro. Voleva capire — evitando una prima, brusca domanda diretta — se era sposata, e di conseguenza se aveva o pensava di avere figli. Così la lettrice ha imparato a esordire dicendo di non avere mariti, né fidanzati, e neppure istinto materno. La persona che conduceva il colloquio, quasi sempre un maschio, appariva rinfrancata. In realtà, non è vero che le donne non fanno figli perché lavorano. È vero il contrario: più le donne lavorano, più fanno figli. Perché sono autonome, possono mantenerli, e hanno meno paura del futuro. Certo, in Italia mancano gli asili nido, come lei signor Rigoni giustamente fa notare. Manca anche storicamente una politica di sostegno alla maternità, e tutto quello che si sta facendo è positivo. Ma la questione non è solo economica e logistica. È anche culturale. La premessa per dare la vita è aver fiducia nella vita. Anche per questo in Italia si fanno pochi figli. Si è esagerato con la precarizzazione: la si è chiamata flessibilità e se ne è fatto un mito; ma si è creata così anche molta sofferenza. Credere che il futuro possa essere migliore del presente richiede una forte dose di ottimismo. E questa cascata di denaro in arrivo dall’Europa ancora non si capisce a chi andrà, e quanti posti di lavoro potrà creare.

LE ALTRE LETTERE DI OGGI

Storia

«Ho perso mia figlia di 8 settimane, un dolore che va rispettato»

Ho avuto un aborto spontaneo, ho perso quella luce che brillava dentro la mia pancia, ho passato quattro giorni con le contrazioni e mi hanno staccato l’ovulo con le pinze. Sono così arrabbiata e triste, sono un grumo di sangue che continua a uscire, svuotata dal dolore. Mi sono interrogata su come avrei gestito questo momento. Il mio gamberetto aveva 8 settimane. Ho visitato tre pronto soccorso in quattro giorni, ho raccolto statistiche: succede a una donna su cinque, oppure sotto i 40 anni la percentuale di aborto spontaneo è del 30%, aumenta a 50% se sfori i 40. Io ne ho 37. Mi ricoverano perché ho perso molto sangue. Dopo quattro giorni mi ritrovo a letto senza dolore, senza fitte. Non riesco a togliermi dalla mente la sensazione dello strappo, non riesco più a tollerare altro sangue che continua a uscire, ma dicono sia normale. Sento il mio corpo violato, senza cura, senza alcuna grazia verso chi fa parte di una minoranza, visto che a tutti piacciono i dati, è più facile «perdere» il bambino piuttosto che un’interruzione in assenza di battito e ancora ben attaccato. Come assistiamo le persone che (visto che non è un episodio né raro né poco comune) subiscono questo lutto? E come sono preparati gli ospedali, e le persone che ci lavorano dentro, a trattare queste donne, con umanità e rispetto? Rispetto di un dolore profondo, di un senso di fallimento che non scompare con i litri di sangue che perdi. Rivendico ogni sacrosanto diritto alla vita, nel rispetto che merita, nella dignità di essere umano quale sono, sofferente, inceppato, violato e forse imperfetto. Queste parole sono per mia figlia, perché lo so, sarebbe stata femmina e si sarebbe chiamata Elisabetta. Il resto va a tutte quelle donne che hanno un lutto profondo interiore, strappi giacenti tra lacrime e speranze di diventare madre.
Giulia Franchi

INVIATECI LE VOSTRE LETTERE

Vi proponiamo di mettere in comune esperienze e riflessioni. Condividere uno spazio in cui discutere senza che sia necessario alzare la voce per essere ascoltati. Continuare ad approfondire le grandi questioni del nostro tempo, e contaminarle con la vita. Raccontare come la storia e la cronaca incidano sulla nostra quotidianità. Ditelo al Corriere.

MARTEDI – IL CURRICULUM

Pubblichiamo la lettera con cui un giovane o un lavoratore già formato presenta le proprie competenze: le lingue straniere, l’innovazione tecnologica, il gusto del lavoro ben fatto, i mestieri d’arte; parlare cinese, inventare un’app, possedere una tecnica, suonare o aggiustare il violino

Invia il CV

MERCOLEDI – L’OFFERTA DI LAVORO

Diamo spazio a un’azienda, di qualsiasi campo, che fatica a trovare personale: interpreti, start-upper, saldatori, liutai. 

Invia l’offerta

GIOVEDI – L’INGIUSTIZIA

Chiediamo di raccontare un’ingiustizia subita: un caso di malasanità, un problema in banca; ma anche un ristorante in cui si è mangiato male, o un ufficio pubblico in cui si è stati trattati peggio. Sarà garantito ovviamente il diritto di replica

Segnala il caso

VENERDI -L’AMORE

Chiediamo di raccontarci una storia d’amore, o di mandare attraverso il Corriere una lettera alla persona che amate. Non la posta del cuore; una finestra aperta sulla vita. 

Racconta la storia

SABATO -L’ADDIO

Vi proponiamo di fissare la memoria di una persona che per voi è stata fondamentale. Una figlia potrà raccontare un padre, un marito la moglie, un allievo il maestro. Ogni sabato scegliamo così il profilo di un italiano che ci ha lasciati. Ma li leggiamo tutti, e tutti ci arricchiranno. 

Invia la lettera

DOMENICA – LA STORIA

Ospitiamo il racconto di un lettore. Una storia vera o di fantasia. 

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Ogni giorno scegliamo un’immagine che vi ha fatto arrabbiare o vi ha emozionati. La testimonianza del degrado delle nostre città, o della loro bellezza.

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