Ignota destinazione. Due parole che Liliana Segre ripete più volte, perché ne sente ancora il peso, tutto intero, non può essere diversamente: sono passati 77 anni ma è come ieri, come sempre. La nostra idea di viaggio, che è ancestrale, si aggancia alla meta, che si raggiunga o che svanisca: da Gilgamesh a Ulisse fino agli esploratori e agli astronauti. Un percorso magari cosparso di insidie e di trappole, ma verso un orizzonte possibile. Liliana tredicenne, il 30 gennaio del ’44, fu invece costretta a un altro passo che cancellava la sua identità. Le dissero soltanto «ignota destinazione».

Nel ventre della stazione Centrale, a Milano, c’è il Memoriale della Shoah. La grande scritta «Indifferenza», le immagini e le voci dell’epoca, i treni che portavano gli ebrei verso i campi di sterminio, il muro digitale con i nomi di chi non è più tornato e i nomi (pochissimi) di chi ce l’ha fatta. È qui che Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, senatrice a vita, ha accolto e accompagnato Marta Cartabia, ministra della Giustizia nel governo Draghi. Una lunga visita, un passo alla volta, fino al binario della morte. Poi il colloquio sulla giustizia e il senso della giustizia: la storia, i limiti, l’attualità, il lato oscuro del web, anche le speranze. Domenica 31 ottobre «la Lettura» pubblicherà la conversazione tra Segre e Cartabia (già sabato 30 sulla App), con le prime quattro pagine. Sul sito abbiamo, in alto, il video della visita e qui sotto il video integrale dell’incontro.

Liliana Segre è nata a Milano nel 1930, è coetanea di Anna Frank che era del 1929. Liliana è qui a raccontare, a spiegare, dolcemente inflessibile, e piace ai ragazzi perché ha la stessa energia vitale, Anna ha lasciato il diario più famoso del mondo, per tanti altri abbiamo una foto e un nome, poco più. La senatrice chiede silenzio, poi ricorda. «Eravamo un’umanità disperata. Vitelli al macello. È l’indifferenza che ha permesso la violenza. È quel pregiudizio che sento ancora addosso. Tantissimo. Vedete i nomi? Famiglie intere, che spesso restavano in città per aiutare i nonni. Almeno l’ho vissuto da figlia. Perché da madre che non riesce a salvare i suoi bambini… io non ce l’avrei fatta».

Si sente il rumore dei treni, al piano di sopra. I nazifascisti li rinchiusero a San Vittore in quanto ebrei: La sola colpa di essere nati, come il titolo del libro che Segre ha scritto con Gherardo Colombo per Garzanti. «Quando ci portarono via dal carcere, gli altri detenuti si affacciarono ai ballatoi e si rivelarono straordinari. Loro non furono indifferenti. Non avete fatto niente di male, che Dio vi benedica, ci urlarono. Chi lanciava un’arancia, chi una mela, chi una sciarpa. Chi soltanto ebbe il coraggio di dirci che ci voleva bene». Il resto della città abbassò le tende, preferì non vedere. «E arrivammo qui al binario. Buttati a decine in carri bestiame come questi, una settimana di viaggio tra chi moriva, stava male, impazziva». Liliana Segre che guida tutta la visita, dettaglio per dettaglio, ricordo per ricordo, non entra nel vagone della morte, c’è un limite anche per le ferite. Non l’ha più fatto, da quel giorno italiano del ’44, abisso del nostro Paese.

Difficile parlare, dopo il percorso. Ma, come dice Marta Cartabia, «se c’è un posto dove ha senso provare, magari balbettando, a rimettere al centro la parola giustizia è proprio qui, nel luogo della massima ingiustizia». Anche perché «il bisogno di giustizia è innanzitutto un bisogno di riconoscimento, di verità e di memoria, per non disperdere la coscienza e la conoscenza di quello che è successo». E la ministra Cartabia non può che pensare anche agli attacchi a Liliana Segre. «Come si fa? Come è possibile? Mi viene in mente una frase che lei ricorda spesso, di Primo Levi: lo stupore per il male altrui. Servono le regole e gli strumenti di contrasto. Ma le leggi devono affondare le radici nella cultura e nell’educazione».

Durante la marcia della morte, il comandante dell’ultimo lager gettò a terra la pistola. Liliana poteva raccoglierla e ucciderlo. Ci pensò, non lo fece. E da quel momento, ha detto e scritto, è diventata «una donna libera, una donna di pace». È l’attimo chiave di una vita. E quella pistola non raccolta, per Marta Cartabia, è il simbolo stesso della giustizia «che non è mai vendetta» e può superare il richiamo dell’odio. La ministra ha un legame speciale con Le Eumenidi di Eschilo, perché la dea Atena istituisce il primo tribunale, riesce a spezzare la catena di sangue, fa prevalere la ragione sulle tenebre. «Un passaggio di civiltà, con la nascita del processo e il valore della parola». Fino all’idea, così attuale, della giustizia riparativa. «La possibilità di ricucire o almeno attenuare le ferite permette davvero di guardare al futuro».

«Toccherà ai ragazzi», dicono Segre e Cartabia. La visita al Memoriale della Shoah si dovrebbe prevedere nei programmi scolastici: in presenza o almeno in via digitale. Farsi forza, restare in silenzio, entrare nei vagoni con meta ignota, meditare «che questo è stato», per ricordare ancora Primo Levi. Fra i diritti umani andrebbe inserito anche il bisogno di conoscere la propria destinazione. Sempre e in ogni luogo.

29 ottobre 2021 | 22:56

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