di Michele Farina

Manifestazioni nelle piazze bloccate dai soldati. Le autorità sospendono Internet, chiuso l’aeroporto di Khartoum. Il capo dei generali: nuovo governo di tecnocrati

Militari al potere, fine della «transizione democratica»: il Sudan sembra tornato alla casella di partenza, dopo due anni e mezzo di speranze e contrasti seguiti alla caduta dell’autocrate Omar al-Bashir nell’aprile 2019. E così, dopo quella tunisina, un’altra primavera africana assume rapidamente i colori dell’autunno. Il premier sudanese Abdallah Hamdok è agli arresti dalle prime ore di oggi, dopo essersi rifiutato di sostenere il golpe. Prelevati dalle loro case all’alba diversi esponenti della società civile, tra cui molti ministri che facevano anche parte del Consiglio sovrano, l’organo «misto» (militari e civili) guidato da Abdel Fattah al-Burhane, il generale che in base alla Costituzione il prossimo novembre avrebbe dovuto lasciare il posto allo stesso premier Hamdok. Una posizione di grande valore simbolico, una sorta di capo dello Stato, che i militari hanno deciso di mantenere.

Sospeso Internet

Nessuna alternanza al vertice. I militari hanno amputato il braccio civile del Consiglio. Il generale Al-Burhane ha ufficializzato nel primo pomeriggio con un discorso in diretta tv e il basco in testa la dissoluzione dell’esecutivo e uno stato di emergenza per cui i militari guideranno da soli il Consiglio sovrano e dunque il Paese fino alle previste (sulla carta) libere elezioni del 2023. Al-Burhane ha parlato di un prossimo governo composto da non meglio specificati tecnocrati in grado di raddrizzare l’economia pericolante. Da Khartoum, la tv Al Jazeera riportava già questa mattina «restrizioni nell’accesso alle telecomunicazioni» che hanno reso più difficile avere notizie su quanto va accadendo. L’interruzione di Internet è uno dei marchi indiscutibili di un colpo di Stato in atto. Come la chiusura dell’aeroporto principale del Paese. E la conquista degli schermi e dell’etere: l’irruzione di forze militari nella sede della radio e della tv sudanese è stata denunciata su Facebook da fonti (non ancora in arresto) del ministero dell’Informazione, che parlano di alcuni dipendenti portati via dai soldati. Si sa che il ministro dell’Industria è stato arrestato dopo aver postato sui social la notizia di una presenza militare davanti alla sua abitazione. Si sa che agli arresti sono finiti lo stesso ministro dell’Informazione e un portavoce del premier. Ed è stato arrestato il portavoce del Consiglio Sovrano, l’organismo che costituisce di fatto la massima autorità del Paese, fino a oggi composto sia da civili che da militari. Secondo fonti del ministero dell’Informazione la maggior parte dei ministri del governo di transizione «è stata portata verso una destinazione ignota».

Il dittatore deposto

Nelle prossime settimane il Consiglio sarebbe dovuto passare sotto il controllo più diretto dei civili, in un processo costituzionale di transizione che dalla «rivolta del pane» del 2019 doveva condurre verso nuove elezioni democratiche previste per il 2023. Ma tale processo subisce ora una battuta d’arresto che pare definitiva, in un Paese di oltre 40 milioni di abitanti, il terzo più vasto dell’Africa, considerato cerniera cruciale con il mondo arabo a Est e con i Paesi del Sahel sempre alle prese con le fiammate jihadiste a Ovest. Il ritorno dei militari al potere dovrebbe avere l’avallo dei loro referenti e padrini del Golfo, Arabia Saudita in testa. I capi militari accusano i civili di non essere in grado di contrastare le crescenti difficoltà economiche in cui versa il Paese, che si trova ad affrontare la morsa del Covid. A settembre era stato sventato un golpe attribuito a nostalgici del dittatore Omar al-Bashir. Nelle ultime due settimane si erano alternati nelle piazze della capitale Khartoum manifestazioni pro-democrazia e assembramenti di gruppi inneggianti a una nuovo golpe militare. Eventi questi ultimi che appaiono ora come prove tecniche, ammonimenti e «assaggi» del piatto forte andato in tavola in queste ore.

Bloccate le strade verso la capitale

Secondo l’agenzia Reuters i militari ancora questa notte avevano chiesto al premier di appoggiare il cambio di governo, in modo «da salvare la Rivoluzione». Hamdok ha risposto chiamando a raccolta il popolo che ha condotto quella Rivoluzione, due anni e mezzo fa, anche contro gli stessi militari (che inizialmente avevano osteggiato le proteste con massacri nelle piazze di Khartoum). L’Associazione dei professionisti del Sudan, il principale gruppo politico pro-democrazia del Paese (che raccoglie insegnanti, avvocati, medici, piloti) ha denunciato il colpo di stato in atto ed invitato la popolazione a scendere in piazza per protesta. Migliaia di persone sono in marcia, anche se nelle però sono stati mandati i reparti dell’esercito e i feroci paramilitari della Forza di intervento rapido per bloccare sul nascere ogni manifestazione (tre giorni fa un milione di persone avevano partecipato a un incontro pro-democrazia). Le grandi arterie verso la capitale sono chiuse, riporta l’agenzia Reuters. Contro i manifestanti sono stati usati gas lacrimogeni. Non si hanno al momento notizie di vittime, ma crescono i timori di una carneficina imminente. Le rare immagini che arrivano da Khartoum suscitano rabbia e tenerezza: giovani che provano ad innalzare esili barriere di mattoni nelle strade assolate.

Le mosse del generale

Abdel Fattah Al Burhan, già presidente del Consiglio sovrano e dunque di fatto «capo dello Stato» nei primi 21 mesi della transizione, era considerato il più rispettabile dei boss militari, una carriera senza le macchie e le atrocità presenti ad esempio sulla divisa del potente generale Hemeti, ex allevatore di cammelli distintosi sotto il regime di Al Bashir per i massacri in Darfour. Durante le proteste del 2018-2019 Al Burhan, 61 anni, era addirittura sceso in piazza per ascoltare le richieste dei manifestanti. Oggi invece ha dichiarato lo stato di emergenza e la fine di un governo nato fragile, frutto di un laborioso negoziato tra i gruppi della società civile sudanese e la gerarchia delle armi che come altrove nel mondo (dall’Egitto a Myanmar) controlla fette cruciali dell’economia nazionale. Al Burhan è considerato dai collaboratori del premier Abdallah Hamdok l’artefice del colpo di Stato.

L’appello contro i ladri della rivoluzione

Dal fallito golpe del mese scorso la tensione interna alle autorità della transizione è rimasta alta e pochi giorni fa, tra proteste di piazza e divisioni nella coalizione delle Forze di libertà e cambiamento, il premier aveva lanciato un appello al «dialogo», e sottolineato la necessità di un cambiamento per portare avanti la transizione nel Paese che per 30 anni ha conosciuto un solo uomo al potere: Omar al-Bashir. Ma sappiamo che dietro al deposto dittatore, soprattutto negli ultimi anni, si è sempre mossa la casta dei militari a condurre la partita. Gli stessi che ora hanno deciso di togliere il respiratore alla boccheggiante democrazia. Mentre dall’ufficio del primo ministro in arresto, da qualcuno della sua squadra che resta ancora a piede libero (il portavoce è stato arrestato), arriva l’invito a scendere in piazza. «Chiediamo al popolo sudanese di protestare usando tutti i mezzi pacifici possibili, per riprendersi la rivoluzione dai ladri che la vogliono rubare».

Le prime reazioni internazionali

Nel silenzio dei Paesi vicini, gli Stati Uniti sono stati i primi a esprimere preoccupazione per le notizie da Khartoum. Gli americani (primi sostenitori economici del Sudan, con 377 milioni di dollari di aiuti quest’anno) sono «fortemente allarmati»: lo ha twittato l’inviato per il Corno d’Africa Jeffrey Feltman, secondo cui questi annunci vanno «contro la dichiarazione costituzionale (che regola la transizione nel Paese) e le aspirazioni democratiche del popolo sudanese». Anche la Lega Araba esprime «profonda preoccupazione». Il segretario generale del blocco di 22 membri, Ahmed Aboul Gheit, ha esortato tutte le parti a «rispettare pienamente» la dichiarazione costituzionale firmata nell’agosto 2019, in linea con la posizione espressa da Joseph Borrell a capo della diplomazia Ue. Solo in tarda mattinata è arrivato l’auspicio dell’Unione Africana: il presidente della Commissione della Ua, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, chiede la liberazione dei leader politici arrestati, il rispetto dei diritti umani e la ripresa del dialogo in Sudan. Tutti obiettivi snobbati dai militari.

Dall’Egitto all’Etiopia

Da Nord a Sud nell’Africa orientale assumono una fisionomia nel complesso ancora più autoritaria i Paesi che dal Mediterraneo arrivano all’Equatore. Ora anche il Sudan sembra guardare al modello dell’Egitto dispotico dell’ex generale Al Sisi più che al governo democratico dell’Etiopia. E forse non è casuale che la tentata restaurazione sudanese cada proprio nel periodo in cui il premier etiope Abiy Ahmed vede deturpata la sua credibilità di uomo di pace (per cui ha vinto anche il Nobel) a causa della sua condotta irresponsabile nella guerra devastante nel Tigray. Abiy è stato il leader regionale che più si era speso per la «transizione democratica» in Sudan, a un certo punto anche volando a Khartoum per convincere i generali riottosi a mantenere fede ai propri impegni con i civili. Un leader che fa bombardare le città del suo Paese può dare lezioni di democrazia ai militari sudanesi?

25 ottobre 2021 (modifica il 25 ottobre 2021 | 14:40)

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