di Gian Antonio Stella

Il Comune leghista «onora» chi emigrò con la cittadinanza al «paisà» che è diventato Capo di Stato del Brasile. Scoppia la polemica. E intanto in Veneto un altro Comune riconoscerà lo stesso titolo all’ex campione José Altafini, ma all’unanimità

Quale lustro ha dato a veneti e italiani, tra venti milioni di italo-brasiliani perbene e spesso straordinari, un uomo come Jair Bolsonaro che domenica (dopo oltre 606mila morti) ha accreditato in tivù, tanto da essere sospeso da Facebook, la notizia che «i vaccinati contro il Covid stanno sviluppando la sindrome da immunodeficienza acquisita, l’Aids»? Questa è la domanda. Tanto più che a pochi chilometri da Anguillara Veneta, il paese leghista che ha deciso di dare al contestatissimo presidente brasiliano la «cittadinanza onoraria», un altro paese veneto di destra, Giacciano con Baruchella (Rovigo) darà sabato prossimo la stessa onorificenza a un altro italo-brasiliano, stavolta amatissimo, cioè Josè Altafini. Benedetto dall’unanimità, destra e sinistra, come giusto, del consiglio comunale.

Come José Altafini

Due pesi e due misure? Certo. Perché il grande attaccante che vinse con il Brasile i Mondiali in Svezia e poi conquistò i tifosi del Milan, del Napoli, della Juventus e della nazionale italiana per inventarsi infine il ruolo di spalla nelle cronache sportive televisive, non è mai stato divisivo. Anzi, ride, «questa è la seconda cittadinanza onoraria che prendo: la prima me l’avevano nata a Caldonazzo, in Trentino, il paese di mia mamma». Oddio, anche il presidente del Brasile, come ha «ricostruito il sociologo italo brasiliano Daniel Taddone, viene da una famiglia di emigranti nostrani: dei 16 trisnonni 13 sono italiani, due tedeschi e uno brasiliano. Quindi Bolsonaro (o Bolzonaro come si scriveva in origine) è un po’ veneto, un po’ toscano, un calabrese.

Simbolo discutibile

A maggior ragione, sostiene il presidente del Consiglio regionale del Veneto Roberto Ciambetti, lui pure leghista, la storia del Capo dello Stato sudamericano «riassume quella di tanti veneti emigrati nell’ultimo quarto dell’Ottocento verso il Brasile fuggendo dalla fame per finire nelle colonie a condurre una vita difficile». Per questo, insiste, trova «strumentali le proteste sollevate sulla cittadinanza» concessa «non certo per le scelte politiche di Jair Bolsonaro e le sue idee contestabili e inaccettabili sul caso Covid-19». Tesi che, aggiustando il tiro sulle indifendibili scelte del «Capitão Coronavirus», come è soprannominato, ribadisce quella della sindaca di Anguillara Alessandra Buoso: il presidente verde-oro rappresenta tutti gli italiani emigrati in Brasile.

Un presidente omofobo

Ma proprio questo, secondo gli avversari di questa scelta presa contro la minoranza e contro l’opinione degli stessi missionari e missionarie italiani in Brasile, autori di una lettera molto dura, è il punto: in questo momento, agli occhi non solo degli italiani ma del mondo intero che assiste basito alle sparate quotidiane di Jair, vantarsi di aver dato i natali alla stirpe di «questo» presidente, uno che preferirebbe avere «un figlio morto piuttosto che un figlio gay», che risponde al Papa in ansia per la foresta tropicale che «l’Amazzonia è una vergine che ogni pervertito straniero vorrebbe possedere», che tuona in una caserma a Rio che «la democrazia e la libertà esistono solo quando le Forze armate lo vogliono», è davvero opportuno per noi veneti e per noi italiani?

Machismo

I nostri nonni che sbarcarono in Brasile come i 331 poveri cristi raccontati da Bernardino Frescura nella relazione «I moderni problemi dell’emigrazione italiana», che nel 1895 furono calati dal bastimento ciascuno dentro una gran cesta fatta scivolare giù verso la riva sull’acqua infestata dai pescecani ne sarebbero orgogliosi? O arrossirebbero a leggere il «loro» presidente condividere come un bullo da balera («non umiliarlo, ahahah!») la battutaccia di una iena da tastiera carioca che aveva postato una foto sgarbata di Michelle Macron confrontandola con una assai pimpante di Michelle Bolsonaro, divise da quasi trent’anni differenza?

Nepotismo e corruzione

Davvero quei nostri nonni sarebbero «onorati» dal condividere l’onore, scusate la ripetizione, col bellimbusto di Brasilia? Cosa aveva da spartire la famiglia del trevigiano Bortolo Rosolen pubblicata in Merica! Merica! dallo storico Emilio Franzina («Piangendo gli descriverò che dopo pochi giorni si amalò tutti i figli e anche le donne, e noi che ne abbiamo condotto undici figli nell’America ora siamo rimasti con 5 e gli altri li abbiamo perduti. Lascio a lei a considerare quale e quanta fu la nostra disperazione che se avessi avuto il potere non sarei fermato in America nepur un ora») con la famiglia del capo dello Stato verde-oro? Quello che ha sbraitato per anni contro la corruzione e poi ha piazzato un figlio alla Camera dei deputati, uno al Senato, uno consigliere comunale a Rio de Janeiro per non dire della stessa Michelle assunta come segretaria parlamentare di Jair e rimossa solo dal Supremo tribunale federale?

La vera storia degli emigrati italiani

Non può essere questo il mondo in cui si riconoscano i nipoti di coloro che, per dirla con una bellissima canzone in dialetto taliàn dell’italobrasiliano Valmor Marasca, si guadagnarono da vivere lavorando una terra dura: «Fa de più de cento ani, / che i taliani qua i zé rivai; / Zé rivati de bastimento, / i gà sofresto pezo que animai; / I gà trovado puro mato, / sensa querte i dormiva in tera; / I gà lutà tanto tanto, / quasi come èser ne la guera».

Tra violazioni e battutacce

Certo, quella sorte toccò presumibilmente anche ai nonni di Bolsonaro. E a loro ci dobbiamo inchinare. E rendere davvero onore. Per conservare la memoria di quei nostri avi, però, occorre tenere fermi alcuni princìpi. Primo fra tutti il rispetto per gli altri. A partire dalla vita degli altri. E qui il comportamento del presidente del Brasile, messo sotto accusa dentro lo stesso Senato verdeoro per «crimini contro l’umanità», non può che essere stigmatizzato per certe parole stupefacenti. Come la volta in cui spiegò, deridendo i medici, che il Covid-19 non era altro che una banale «gripezinha», una «influenzina» o meglio ancora un «resfriadinho» (un raffeddorino) curabile con dell’idrossiclorochina. In ogni caso, assicurò, «i brasiliani sono più resistenti al contagio della malattia»: infatti se anche «si tuffano nelle fogne, non gli succede niente». Boutades scellerate tra la goliardia e la tragedia di un uomo non all’altezza del Paese che governa e della storia da cui proviene. Ce ne sono altri, di figli e nipoti di emigrati cui rendere onore. Ce ne sono altri…

27 ottobre 2021 (modifica il 27 ottobre 2021 | 08:52)

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