di Federico Rampini

Le navi al largo di Long Beach perdono tempo e i ritardi si scaricano a valle su chi aspetta le merci, oltre al fatto che aumenta l’inquinamento. In Usa vola l’inflazione

È il luogo che condensa tutte le tensioni economiche mondiali: il porto di Long Beach – Los Angeles. Dall’ingorgo di navi al ritorno dello smog. Dal boom del made in China all’inflazione. Dalle penurie di prodotti ai timidi passi verso una normalizzazione nei rapporti fra Joe Biden e Xi Jinping. Tutto passa dalla metropoli californiana, epicentro dell’ingorgo globale che minaccia la ripresa economica.

Dal primo weekend di novembre gli ambientalisti hanno segnalato un ritorno di inquinamento in California. L’allarme è finito in prima pagina sul Los Angeles Times con corredo di foto sulla «nebbia» sospetta che vela il cielo. La più grande città della West Coast è un laboratorio storico dell’ambientalismo americano. Ai tempi di Blade Runner (1982), il cult-movie di fantascienza diretto da Ridley Scott e tratto da un romanzo di Philip Dick, era descritta come un inferno di fumi, pioggie acide, cieli sempre oscurati. Poi per quarant’anni la California è stata all’avanguardia nell’ambientalismo e Los Angeles è diventata sinonimo di cieli azzurri, aria tersa, palmizi al sole. Ora contro i timori d’inversione di tendenza le autorità locali tornano a varare divieti, per esempio sull’uso del legname per i caminetti. Ma ambientalisti e media hanno indicato un possibile sospetto, è la congestione di maxi-navi in rada. Non ci sono certezze su questo nesso causa-effetto, però da mesi le foto aeree riprendono uno spettacolo insolito: oltre il porto di Long Beach, un pezzo di Oceano Pacifico è trasformato in un gigantesco parcheggio. In media dalle 70 alle 100 navi sostano al largo, ogni giorno, perché non ci sono banchine libere per attraccare e scaricare container. L’attesa per ogni King Kong degli oceani raggiunge facilmente le due settimane, durante le quali i mostri marini bruciano carburanti fossili. Questo ingorgo è al tempo stesso un sintomo positivo — l’economia mondiale è ripartita alla grande, per molti aspetti lo shock del Covid è alle spalle — e un concentrato dei problemi che possono far deragliare questa ripresa. Le navi al largo di Long Beach perdono tempo prezioso e i ritardi si scaricano a valle, su chi aspetta le merci. Dagli ipermercati alle aziende in attesa di componenti, fino al consumatore finale, soffriamo penurie in molti settori: semiconduttori, automobili, pneumatici, giocattoli, apparecchiature mediche. Alcuni prodotti scarseggiano per ragioni specifiche come la guerra fredda Usa-Cina nelle tecnologie; quasi tutti risentono anche delle strozzature logistiche. «La madre di tutti gli ingorghi» affligge proprio il porto di Los Angeles, in prima fila nell’accogliere la rinascita di un vigoroso interscambio tra le due sponde del Pacifico.

Il contributo del trasporto marittimo all’inflazione è sostanziale: in media le tariffe navali sono aumentate del 450% e in alcuni casi di rotte «calde» come Shanghai-Los Angeles affittare un container può costare fino al decuplo rispetto a due anni fa. I giganti della distribuzione americana Amazon e Walmart sono costretti a noleggiare le navi in proprio per non dipendere troppo dal cartello delle grandi compagnie (tra cui figurano l’italiana Msc insieme con la danese Maersk, la francese Cma-Cgm, la cinese Cosco, la tedesca Hapag-Lloyd).

L’ingorgo globale dei mari si ripercuote sull’inflazione. In America i prezzi al consumo sono aumentati del 6,2% a ottobre, quelli all’ingrosso dell’8,6%. Era da 31 anni che non si verificava una fiammata così forte del carovita. Fioccano i paragoni di malaugurio, sulla stampa americana Joe Biden viene paragonato a due presidenti sfortunati degli anni Settanta: Gerald Ford che esibiva all’occhiello il distintivo Win (iniziali di «whip inflation now», frusta l’inflazione adesso); Jimmy Carter che in tv indossò un maglione a collo alto per un appello a ridurre la temperatura del termostato in mezzo allo shock energetico. Né l’uno né l’altro furono rieletti. La loro epoca rimase segnata dalla stagflazione, perverso intreccio di stagnazione e inflazione. I container di merci bloccati al largo di Long Beach, e i rincari dei prezzi, possono scatenare una sindrome simile?

La Federal Reserve, la banca centrale americana, finora ha cercato di rassicurare. La sua spiegazione preferita attribuisce l’inflazione a un «effetto imbuto» creato dalla pandemia, una tantum e quindi superabile. L’anno scorso l’economia mondiale si fermò per alcuni mesi. Nel frattempo i consumatori chiusi in casa, ma generosamente aiutati da sussidi statali, ordinavano online ogni sorta di prodotti. Quando le fabbriche hanno ricominciato a funzionare, gli ordini arretrati da smaltire hanno creato disservizi dappertutto, e hanno intasato infrastrutture poco elastiche. Biden ha convinto i portuali di Los Angeles a lavorare anche di notte; però il numero di banchine è fisso, non se ne costruiscono di nuove in pochi mesi. I mille miliardi di dollari d’investimenti in infrastrutture che Biden ha fatto approvare dal Congresso verranno spesi in dieci anni, gli effetti non si vedono a breve.

Un’altra teoria è molto meno rassicurante. Il collasso della rete infrastrutturale americana sarebbe solo una delle strozzature. Bisogna aggiungere le penurie di manodopera nei lavori disagiati – come i camionisti – dopo che la pandemia ha innescato una «grande dimissione». Poi c’è lo shock energetico. Infine c’è la marcia indietro che tante multinazionali stanno facendo rispetto al modello «just-in-time» lanciato dalla Toyota negli anni Ottanta: una gestione cronometrata delle forniture di materie prime e semilavorati, per ridurre i costi di magazzino. Quel modello diventa troppo vulnerabile di fronte a shock imprevisti — i «cigni neri» della statistica — come pandemie, guerre, tensioni geopolitiche. Ecco che la stessa Toyota dopo essere stata costretta a tagliare la sua produzione del 40% per mancanza di semi-conduttori, deve rivedere la politica delle scorte. Mettendo insieme tante forme di penurie diverse, più le nuove conflittualità sociali post-Covid, c’è chi arriva a immaginare una spirale tra prezzi e salari proprio come negli anni Settanta. In fondo al tunnel c’è una stretta monetaria della banca centrale, costretta a spegnere la ripresa per frenare i prezzi.

Partiti dall’ingorgo sulla costa di Los Angeles, si ritorna lì per ciò che rivela sulla strana coppia Biden-Xi. I leader delle due superpotenze nel loro primo vertice bilaterale — a distanza — hanno evitato di parlare di un disgelo. Ciascuno però è costretto a cercare un modus vivendi con l’altro, per tamponare le proprie debolezze. La Cina è colpita duramente dallo shock energetico, si aggrappa a una politica «Covid-zero» troppo rigida, e cerca di governare lo sgonfiamento della sua bolla speculativa immobiliare minimizzando i traumi sociali. Xi ha bisogno del traino delle esportazioni per una crescita cinese che affronta venti contrari. Biden ha bisogno di merci, per evitare scaffali vuoti nella stagione consumista da Thanksgiving a Natale, e per contenere nuove tensioni sui prezzi. L’inflazione è balzata al primo posto tra le cause del malcontento negli Stati Uniti, e Biden continua a calare nei sondaggi.

Il risultato delle «convergenze parallele» tra Washington e Pechino: +27% nell’export del made in China. Restano intatte molte altre ragioni di diffidenza tra i due leader. Ma l’ondata di prodotti cinesi ha ripreso a viaggiare verso gli Stati Uniti come prima, più di prima: quest’anno nei primi dieci mesi ha già superato tutto il risultato del 2020. Le foto aeree del Pacifico al largo di Los Angeles raccontano anche questo.

19 novembre 2021 (modifica il 20 novembre 2021 | 15:41)

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