di Gianluca Mercuri

Otto anni fa, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger scrisse un articolo definendo tre punti per «porre fine alla crisi dell’Ucraina». Riguardavano l’ingresso nell’Ue, quello nella Nato e la sua finlandizzazione. Lette ora, quelle righe sembrano ad alcuni l’ennesima profezia di un oracolo delle relazioni internazionali, e ad altri la certificazione dei suoi errori

Kissinger, eternamente Kissinger, inevitabilmente Kissinger. A quasi 99 anni, l’ex segretario di Stato americano è ancora una specie di oracolo delle relazioni internazionali, un uomo il cui impareggiabile (e controverso) mix di pensiero e azione rappresenta un punto di riferimento ineludibile, anche quando si punti a superarlo o demolirlo. Talmente onnipresente, l’uomo che in un modo o nell’altro si è visto consultare da tutti gli inquilini della Casa Bianca da Kennedy in poi, che anche quando non parla è come se lo facesse, perché c’è sempre un suo pronunciamento, un suo atto, un suo scritto che improvvisamente torna attuale, e dà l’idea di adattarsi perfettamente all’ultima crisi.

L’ultimo esempio è il suo articolo sul Washington Post di 8 anni fa — 5 marzo 2014 — che in questi giorni è tornato a circolare insistentemente in Rete come una sorta di profezia, col corollario da molti desunto che, se il mondo avesse dato retta al maestro dell’approccio realista alle questioni di politica estera, la tragedia ucraina sarebbe stata evitata.

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Il pezzo si intitolava «To settle the Ukraine crisis, start at the end» («Per risolvere la crisi ucraina, si cominci dalla fine») e commentava gli effetti della rivoluzione di Euromaidan, esplosa a cavallo tra il ‘13 e il ‘14 dopo che il presidente Yanukovyc aveva rifiutato di firmare l’accordo di associazione con l’Ue per siglarne uno con la Russia, finendo per essere costretto alla fuga dalla reazione popolare.

Cosa diceva Kissinger? In sintesi:
• Sì a un’Ucraina associata all’Europa
• No a un’Ucraina nella Nato
• Ucraina «finlandizzata».

Tutte questioni, come si vede, estremamente attuali e ricorrenti in ogni analisi di questi giorni terribili.

La finlandizzazione, in particolare, veniva spiegata così: «Saggi leader ucraini dovrebbero optare per una politica di riconciliazione tra le varie parti del loro paese. A livello internazionale, dovrebbero perseguire una posizione paragonabile a quella della Finlandia. Quella nazione non lascia dubbi sulla sua fiera indipendenza e coopera con l’Occidente nella maggior parte dei campi, ma evita accuratamente l’ostilità istituzionale verso la Russia».

Naturalmente l’analisi era molto più articolata. In particolare, tendeva a sottolineare errori e contraddizioni del campo occidentale. Si sosteneva che l’Ucraina «non deve essere l’avamposto di una delle due parti contro l’altra, ma funzionare come un ponte tra loro». Che la Russia «deve capire che cercare di costringere l’Ucraina a uno status di satellite condannerebbe Mosca a ripetere la sua storia ciclica di pressioni reciproche con l’Europa e gli Stati Uniti». Che «l’Occidente deve capire che, per la Russia, l’Ucraina non potrà mai essere solo un paese straniero», con relative citazioni sulle radici storiche e religiose della Russia ben piantate in Ucraina che sentiamo ripetere di frequente. Che l’Ucraina ha «una storia complessa e una composizione poliglotta», riassunte schematicamente così: «L’ovest è in gran parte cattolico; l’est in gran parte russo-ortodosso. L’ovest parla ucraino; l’est parla soprattutto russo».

Poi c’erano altre due affermazioni chiave: «La Russia non sarebbe in grado di imporre una soluzione militare senza isolarsi»; e «per l’Occidente, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una politica; è un alibi per l’assenza di una politica».

Ripreso e citato spesso, l’articolo «profetico» di Kissinger ha avuto soprattutto commenti positivi, che ne hanno sottolineato la lucidità, l’equilibrio e la preveggenza. Su tutti quello di un politologo stimato come Piero Ignazi, che sul Domani ha scritto che il grande diplomatico americano aveva ragione quando sosteneva che «trascinare l’Ucraina in un confronto tra Est e Ovest avrebbe impedito per decenni di portare la Russia in un sistema internazionale cooperativo». Interessanti anche altri rilievi di Ignazi: «Si poteva fermare prima Putin e salvare l’Ucraina? Forse sì, ma la supponenza politico-morale occidentale ha impedito passi intelligenti in questa direzione». E ancora: «Il superiority complex che noi occidentali spesso esprimiamo risulta fastidioso, e financo insopportabile, agli altri paesi».

È curioso, e perfino divertente, notare che Kissinger — l’icona dell’imperialismo Usa contro cui le sinistre mondiali hanno marciato per anni in ogni angolo del pianeta — è stato così arruolato nel campo dei critici dell’Occidente. Una forzatura? Fino a un certo punto, perché gli argomenti kissingeriani sono in effetti affini a quelli di un certo pacifismo di sinistra molto criticato (per esempio da Paolo Mieli) per il suo presunto filo-putinismo di fondo (e a proposito di alibi e Putin, Mieli nega al leader russo quello della presunta politica aggressiva della Nato nei confronti della Russia).

L’entusiasmo per la profezia kissingeriana, però, non è unanime. Chi proprio non lo condivide è Mario Del Pero, storico a SciencesPo, che il mito di Kissinger lo demolisce punto per punto: non arriva ai livelli di Christopher Hitchens, che in un libro memorabile lo descrisse come «uno splendido bugiardo dalla straordinaria memoria», e soprattutto come un criminale di guerra; ma certo è ben distante dall’apologia che Niall Ferguson ne ha fatto nella sua biografia in due volumi, in cui contesta l’opinione comune sulla sua spietatezza.

Sul sito della Treccani, Del Pero smonta dunque «la presunta profezia kissingeriana». Quei commenti del 2014, afferma, «esprimono in forma plastica, verrebbe voglia di dire quintessenziale, il suo stile, il suo metodo e il suo approccio. E ovviamente i suoi limiti, analitici e prescrittivi. Il lessico utilizzato, denso di aforismi, è quello — all’apparenza savio e preciso e nei fatti spesso delfico e vago — che si ritrova in tanti scritti kissingeriani: “il test della politica è come finisce, non come inizia”; “la politica estera è l’arte di stabilire delle priorità”», e altri ancora. «A queste verità — talora banali, non di rado oracolari — si aggiunge l’uso di una storia che fisserebbe paletti, o meglio essenze, ineludibili per tutti i soggetti coinvolti». Perché «una visione essenzialista come quella kissingeriana fatica a confrontarsi con processi storici che definiscono la creazione, la costruzione, l’adattamento e il costante ripensamento di una nazione e dei suoi fondamenti identitari».

Nel caso dell’Ucraina, «sembra dare quasi per scontato che la popolazione russofona sia inevitabilmente, e perennemente, filorussa (e quindi filoputiniana). Numerosi esperti ci spiegano invece con chiarezza quanto una specifica identità ucraina sia stata ridefinita (e rafforzata) dagli anni successivi alla crisi del 2014-15 (ndr: ne ha scritto Luca Angelini sulla Rassegna di mercoledì). Ed è davvero difficile immaginare che la resistenza all’invasione russa e questa terribile guerra non siano destinate a dare un contributo fortissimo alla costante ridefinizione dell’identità nazionale ucraina».

Del Pero, in linea con Mieli, contesta soprattutto un punto: «È la Nato, nel 2014, a essere individuata da Kissinger come la causa principale della crisi che si aprì allora». Alla fine sembra ammettere in qualche modo che il nocciolo delle sue proposte di allora si mostri resistente al tempo: «Restano sul tavolo la neutralità — nella forma di un riconoscimento che l’Ucraina non farà mai parte della Nato — e il legame con Europa, che ora include addirittura l’adesione di Kiev alla Ue». Ma poi precisa che si tratta di «due elementi che paiono offrire delle basi negoziali molto fragili e futuribili nel contesto di guerra attuale», in cui «i costi crescenti del conflitto alzano per entrambe le parti la soglia per accettare un compromesso».

Eppure, quanto le idee kissingeriane siano ancora attuali — il che non vuol dire che siano le uniche soluzioni percorribili, me che forse non «nascevano deboli e su premesse problematiche già otto anni fa» — lo ha confermato sul Corriere Franco Venturini: «Perché non perseguire un accordo negoziale che preveda l’ingresso accelerato dell’Ucraina nella Unione europea, la sua neutralità (dunque niente Nato), e una serie di garanzie per tutte le parti in causa?».

Gli europei sembrano «esitanti», ma «davvero si opporrebbero a una intesa che potrebbe portare alla sospirata pace? E l’Ucraina non potrebbe finalmente smettere di essere uno Stato-cuscinetto e rafforzare i suoi legami con l’Occidente, con la Ue e senza i missili che allarmano i russi?».

Naturalmente, accanto a quello della collocazione internazionale dell’Ucraina resta il nodo dei suoi confini e del destino del Donbass. Intanto, piaccia o non piaccia, il vecchio Kissinger è sempre lì, a fare arricciare nasi ma sempre a farsi ascoltare.

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11 marzo 2022 (modifica il 12 marzo 2022 | 18:06)

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