Caro Aldo, a «Che tempo che fa» il Papa ha detto che il clericalismo è una perversione della Chiesa. Subito mi è balzata alla mente una scritta sui muri degli anni 70-80: «Cloro al clero». Mi chiedo e le chiedo come mai non è venuto in mente di scrivere «Cloro al clericalismo». Mansueto Piasini
Caro Mansueto, La prima cosa che mi ha colpito, della storica intervista di Francesco a «Che tempo che fa», è la «rosicata», come dicono a Roma, che ha suscitato. Sono uscite stroncature preventive, che parlavano male di un’intervista non ancora fatta. Capisco che uno che nel giro di tre anni porta in trasmissione Macron, Obama, Lady Gaga e il Papa susciti qualche invidia. Ma il segreto, quando trovi qualcuno più bravo di te, è rilassarsi; e in effetti la tv di Fabio Fazio rilassa, mette a proprio agio, e predispone l’intervistato a sentirsi libero, a dire cose che non pensava di poter dire, e quindi a suscitare di volta in volta rabbia, indignazione, commozione, simpatia nel senso etimologico: soffrire e sentire con un altro essere umano. In questo caso, Francesco. Nella sua apparente semplicità, il Papa ha un’intelligenza sofisticata; lo si è visto quando ha accennato al coté piemontese della famiglia, mettendone a fuoco in tre parole la ritrosia, l’understatement, quello che Norberto Bobbio, il più importante intellettuale italiano dell’ultimo mezzo secolo, sintetizzava con il suo «esageruma nen», non esageriamo. Per quanto riguarda il tema che l’ha colpita, gentile signor Piasini, Bergoglio ne aveva già parlato in una conversazione con Eugenio Scalfari, pure quella fonte di formidabili «rosicate». La sua idea è che la Chiesa non debba essere una categoria a parte, un’istituzione separata, al riparo dalla società e dalla storia, ma debba mettersi in gioco, aprirsi, uscire da se stessa. E che quello di sacerdote non sia un mestiere come gli altri, ma richieda il darsi completamente, il vivere la vita della comunità, l’«avere addosso l’odore delle pecore». Detto questo, governare la Chiesa è un’arte complessa, come hanno sperimentato sia Ratzinger sia Bergoglio, commettendo ognuno i propri errori. Ma questa idea della «Chiesa in uscita» è destinata a restare.
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Storia
«Un concorso di scrittura sull’esodo giuliano-dalmata»
Non dobbiamo smettere di ricordare. E la scrittura è l’unico modo che ci permette di conservare e trasmettere le emozioni vissute; di creare cultura. «Raccontare per ricordare» è il titolo del primo concorso nazionale sull’esodo giuliano dalmata. È stato organizzato dall’Unione degli Istriani e dal social di scrittori Kepown in occasione de «Il Giorno del Ricordo» che si celebra domani, data della firma a Parigi del Trattato di Pace, che andò in vigore il 15 settembre 1947. Proprio le stesse date fanno da inizio e fine del concorso: da domani, 10 febbraio al 15 settembre tutti gli italiani sono invitati a scrivere sulla piattaforma Kepown una storia vera o di fantasia sull’esodo partendo dai fatti reali che lo causarono. Lo scopo è di creare empatia per il dramma patito nel dopoguerra dagli italiani che vivevano lungo la costa orientale dell’Italia. Un dramma di sradicamento senza fine, perché gli esuli e i loro figli non potranno ritornare mai più ad abitare le proprie case. Gli istriani, i fiumani e i dalmati scelsero di abbandonare la loro terra per mantenere l’identità italiana, consci che un popolo privato della sua cultura perde l’identità. Saranno premiati da una giuria qualificata: il racconto più commovente, il più romantico e quello che avrà ricevuto più like. In premio un soggiorno in Istria o Dalmazia. Inoltre i racconti vincitori e quelli più meritevoli verranno pubblicati in un libro edito dall’Unione degli Istriani e rimarranno pubblicati su Kepown (www.kepown.com). Elisabetta de Dominis
INVIATECI LE VOSTRE LETTERE
Vi proponiamo di mettere in comune esperienze e riflessioni. Condividere uno spazio in cui discutere senza che sia necessario alzare la voce per essere ascoltati. Continuare ad approfondire le grandi questioni del nostro tempo, e contaminarle con la vita. Raccontare come la storia e la cronaca incidano sulla nostra quotidianità. Ditelo al Corriere.
MARTEDI – IL CURRICULUM
Pubblichiamo la lettera con cui un giovane o un lavoratore già formato presenta le proprie competenze: le lingue straniere, l’innovazione tecnologica, il gusto del lavoro ben fatto, i mestieri d’arte; parlare cinese, inventare un’app, possedere una tecnica, suonare o aggiustare il violino
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MERCOLEDI – L’OFFERTA DI LAVORO
Diamo spazio a un’azienda, di qualsiasi campo, che fatica a trovare personale: interpreti, start-upper, saldatori, liutai.
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GIOVEDI – L’INGIUSTIZIA
Chiediamo di raccontare un’ingiustizia subita: un caso di malasanità, un problema in banca; ma anche un ristorante in cui si è mangiato male, o un ufficio pubblico in cui si è stati trattati peggio. Sarà garantito ovviamente il diritto di replica
Segnala il caso
VENERDI -L’AMORE
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SABATO -L’ADDIO
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di Lorenzo Nicolao L’accordo, reso possibile dai finanziamenti del Pnrr, è stato firmato dai ministri Colao e Franco con il presidente dell’Acri, Profumo. I fondi verranno dalle fondazioni bancarie
Nuove competenze contro le diseguaglianze, anche nel settore delle tecnologie digitali. Per combattere il digital divide e accompagnare la digital improvement del Paese, il Governo vuole cogliere al volo l’opportunità economica offerta dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) utilizzando quella che dovrebbe essere una cifra pari a 350 milioni di euro in cinque anni per sostenere ogni progetto sul suolo nazionale che possa contribuire agli obiettivi da raggiungere. L’iniziativa istituzionale si materializzerà in un Fondo ridefinito “per la Repubblica Digitale”, raccogliendo i soldi da investire grazie alla collaborazione delle fondazioni bancarie. L’accordo d’intesa è stato siglato dai ministri Vittorio Colao (Transizione digitale) e Daniele Franco (Economia e Finanze) insieme a Francesco Profumo, presidente di Acri (Associazione delle Fondazioni e delle Casse di Risparmio) per dare una linea guida generale, definire le modalità di intervento e accrescere in modo sistemico le competenze digitali degli italiani.
Particolare attenzione viene rivolta dall’iniziativa a tematiche come la formazione e l’inclusione, dove il primo nemico resta il space di competenze in materia tecnologica, mentre altrettanto delicata è la promozione della formazione, in molti casi ancora incompleta, sia a livello accademico che in ambito strettamente professionale, secondo le competenze necessarie nel mondo contemporaneo. I presupposti si rispecchiano bene nel più recente Digital Economy and Society Index (DESI) della Commissione Europea, secondo il quale il 58% della popolazione italiana tra i 16 e i 74 anni non avrebbe competenze digitali di base, rispetto al 42% della media Ue. Anche per questo motivo l’accesso ai servizi digitali, come quelli della Pubblica Amministrazione è spesso rallentato e in ritardo, ma da questo momento in poi, proprio per superare questa deadlock, il Fondo Repubblica Digitale potrà selezionare i progetti da finanziare tramite bandi favorendo soggetti pubblici, privati senza scopo di lucro e del terzo settore. Un modo per superare così la povertà educativa che coinvolge le nuove tecnologie, ormai imprescindibili.
A coordinare il Fondo, un comitato di sei componenti, designati da Governo e Acri, per definire priorità e linee strategiche. Al momento sono Daria Perrotta, Michele Bugliesi, Luca De Angelis, Anna Gatti, Federico Giammusso e lo stesso Francesco Profumo. In sei mesi verrà invece individuato il soggetto attuatore, che si occuperà della parte operativa. “Vogliamo essere uno dei Paesi che guiderà la trasformazione digitale in Europa, già nel 2026. Gli obiettivi digitalizzazione del Pnrr sono un’occasione unica, per quanto molto ambiziosa. Occorre puntare direttamente sulle persone. Con questo Fondo vogliamo accompagnarle verso il digitale e agevolare il loro accesso alla tecnologia”, queste le parole del ministro Vittorio Colao, alle quali fanno eco quelle espresse dal collega Daniele Franco. “La digitalizzazione è un elemento fondamentale per la trasformazione e il progresso del Paese. Grazie a questo processo l’Italia potrà essere più competitiva, anche economicamente. Il Fondo era necessario per poter perseguire questi obiettivi”.
10 febbraio 2022 (modifica il 10 febbraio 2022|18:03)
Il coordinatore: Forza Italia è al centro dell’alleanza. Il centrodestra non è un monolite, ma non si fanno le fusioni a freddo
«Dobbiamo anteporre l’interesse degli italiani a quello dei partiti. Tirare a campare non serve», avverte Antonio Tajani, coordinatore e numero due di Forza Italia.
Le fibrillazioni all’interno dei partiti mettono a rischio la tenuta del governo? «Il governo deve incidere. Noi, ad esempio, chiediamo una vera riforma della giustizia: basta porte girevoli tra magistratura e politica e una chiara e netta separazione delle funzioni. Serve anche la riforma del Csm. Sono fondamentali come quella del fisco e della burocrazia. Tutto questo deve riguardare l’attuale governo e il successivo che sarà sicuramente di centrodestra e avrà il compito di modernizzare il Paese».
Lei parla di centrodestra ma al momento volano gli stracci: Salvini contro Meloni, Meloni contro Berlusconi. Come andrà a finire? «Il centrodestra non è un monolite, si sa. È una coalizione che ha al suo interno forze diverse. E io credo che un ruolo fondamentale lo debba avere Forza Italia che è il centro del centrodestra di governo perché liberale, popolare, europeista, atlantista, riformista e cristiano».
Salvini parla di partito repubblicano, Meloni di una compagine dei conservatori. Come si può ricompattare la coalizione? «La formula vincente si troverà. Non si fanno certo le fusioni a freddo il giorno dopo di un voto delicato come è stato quello del Quirinale. Piuttosto impegniamoci su idee e proposte per il Paese. C’è un problema legato al rilancio dell’industria, c’è il Pnrr da mettere a terra. Il secondo capitolo di spesa più importante del Pnrr è quello dedicato alla digitalizzazione del nostro continente europeo».
Però scricchiolano gli equilibri in diverse regioni: Liguria, Piemonte, Basilicata. Salta tutto? «È fisiologico che ci siano tensioni a livello locale».
Ma alle amministrative della primavera prossima cosa succederà? Farete le primarie come vi chiede FdI? «È uno strumento che ha fatto ottenere pessimi risultati al Pd».
Niente primarie, dunque. Lei scommetterebbe sull’unità del centrodestra alle politiche del 2023? «Con l’attuale sistema di voto il centrodestra deve restare unito».
Renato Brunetta dice basta «bipolarismo bastardo». C’è chi nel vostro partito vorrebbe rifare un centro con leader Mario Draghi? «La sua è un’opinione personale, non è certo quella di Forza Italia».
Ha visto che Toti e Renzi lavorano alla costruzione di un nuovo polo centrale? «Non vedo prospettive diverse da un centro che è FI. Ci sono già pezzi di centrismo come l’Udc o Noi con l’Italia che sono federati con noi. Nella storia degli ultimi 28 anni i contenitori di centro che sono nati dopo la fine della Democrazia cristiana non hanno mai avuto successo».
E se si tornasse al proporzionale? «Quando incontro per strada la gente non mi chiede della legge elettorale. Piuttosto mi chiede dell’aumento delle bollette. Parliamo al Paese, altrimenti rischiamo di parlarci fra di noi ed essere autoreferenziali».
A proposito di caro bollette, chiederete un altro scostamento di bilancio? «Occorre reperire i fondi per salvare le imprese e le fasce più deboli dal caro bollette. L’importante è recuperare quel denaro e risolvere questo enorme problema ai cittadini. Le persone sono preoccupate. Tra gas ed elettricità, non sanno più cosa fare. Se una famiglia riceve bollette di oltre 300 euro non sa come far tornare i conti. Lo si vuole fare senza un ulteriore scostamento di bilancio? Bene, si proceda. Contemporaneamente bisogna lavorare a livello strategico. Che significa estrarre più gas, pensare al nucleare, aggiornare il piano nazionale energetico, sbloccare le rinnovabili eliminando burocrazia e sottraendo gli impianti a possibili veti».
Avete ricevuto garanzie da parte del governo? «Sappiamo che c’è voglia di intervenire».
8 febbraio 2022 (modifica il 9 febbraio 2022 | 00:26)
Lander era stato criticato da 500 colleghe già a gennaio. «Numerose dipendenti ridotte in lacrime, traumatizzate», ha detto una di loro
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON Scienziato brillante, ma anche uomo arrogante e irrispettoso con le donne. Le due cose non potevano convivere alla Casa Bianca. Così lunedì 7 febbraio Eric Lander, 65 anni, si è dimesso dalla carica di Direttore per le politiche scientifiche e tecnologiche, un ruolo equiparato a quello di ministro nel governo di Joe Biden.
Lander, nato a New York, matematico di formazione, è poi diventato un punto di riferimento assoluto per la genetica. È professore di biologia al Massachusetts Institute of Technology (il Mit di Boston) e docente alla Harvard Medical School.
Nella primavera del 2021 il presidente lo aveva scelto come consigliere scientifico, affidandogli anche la guida della ricerca sul cancro, la cosiddetta «Moonshot Initiative» che punta a ridurre le morti per tumori di almeno il 50% nei prossimi 25 anni. Un progetto molto importante per Biden che ha perso il primogenito, Beau, per una neoplasia al cervello. La rinuncia di Lander, quindi, è un colpo politico, ma anche personale per il leader degli Stati Uniti. La situazione, però, era diventata insostenibile, dopo che il sito «Politico» aveva raccolto le rivelazioni di Rachel Wallace, una dirigente dell’«Office of Science and Technology Policy», guidato dal 2 giugno del 2021 da Lander. Wallace ha raccontato di aver presentato una denuncia interna per mettere fine al «bullismo» del capo nei suoi confronti e di altre impiegate. «Numerose dipendenti sono state ridotte in lacrime, traumatizzate e con la sensazione di essere vulnerabili e isolate». In un primo momento l’indagine interna non ha portato alla luce «comportamenti discriminatori basati sul genere sessuale».
Anche la Casa Bianca aveva coperto Lander. La portavoce Jen Psaki osservò come il suo comportamento fosse stato accuratamente vagliato dai senatori, durante la procedura di ratifica della nomina. In realtà, nel corso delle audizioni, diversi parlamentari gli avevano chiesto conto della frequentazione con Jeffrey Espstein, il finanziere-predatore sessuale. Lo scorso gennaio, 500 scienziate firmarono un editoriale sulla rivista Scientific American, chiedendo a Biden di congedare Lander «per la sua reputazione controversa e per il suo ego senza fine». Un biologo, James Watson, aveva detto pubblicamente che l’illustre collega aveva «una lunga storia di commenti razzisti e sessisti».
Lander ha provato ad arginare l’ondata con una lettera di scuse. Ma non è stata sufficiente per placare la rabbia di Wallace e delle altre persone offese. A quel punto ha lasciato l’incarico con un ultimo messaggio: «Sono devastato perché ho causato sofferenza ai miei colleghi».
All’inizio del suo mandato Biden aveva promesso: «Se qualcuno vi manca di rispetto, mentre lavorate per me, vi prometto che lo licenzierò all’istante». Così lunedì sera non ha potuto che accettare le dimissioni di Lander, sia pure «con gratitudine per il lavoro svolto».
8 febbraio 2022 (modifica il 8 febbraio 2022 | 20:37)
Giovedì 10 febbraio con il quotidiano il saggio per la ricorrenza dedicata alle stragi e all’esodo istriano: Raoul Pupo racconta il dramma vissuto dalla città giuliana nel 1945. Le responsabilità del fascismo, il disegno annessionista della Jugoslavia
Inutile girarci intorno. Il Giorno del Ricordo, istituito per commemorare le vittime delle foibe e il dramma dell’esodo istriano-dalmata, è una ricorrenza su cui grava l’ipoteca delle passioni di parte.
Anche la scelta del 10 febbraio si presta a qualche obiezione: non per la vicinanza al Giorno della Memoria riguardante la Shoah, a cui quest’altra celebrazione non ha mai fatto ombra, ma perché la data coincide con la firma del trattato di pace nel 1947. Se è vero che quell’atto segnò la perdita dei territori orientali dai quali gli italiani fuggirono in massa, è altresì innegabile che riportò il nostro Paese nell’ambito della comunità internazionale dopo la vergogna delle aggressioni fasciste.
Non è questo tuttavia il punto decisivo, ma il fatto che su quegli eventi terribilmente complessi abbondano le semplificazioni ideologiche. La destra postmissina, per non parlare di quella apertamente neofascista, coltiva una versione dei fatti avulsa dai precedenti e dal contesto storico, come se gli italiani al confine orientale fossero stati solo vittime e non anche, in precedenza, oppressori e aggressori. Ma c’è anche una sinistra che continua a giustificare l’azione violenta degli jugoslavi, considerata solo una rappresaglia per i torti subiti, e bolla il Giorno del Ricordo quale espressione di un aberrante «revisionismo di Stato» (così il critico d’arte Tomaso Montanari), del quale si sarebbero resi colpevoli perfino i presidenti Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella.
In realtà proprio a Mattarella va dato atto di aver operato con accortezza per valorizzare ciò che ci unisce alle repubbliche ex jugoslave grazie al progetto europeista, al di là delle memorie divise, in particolare con il duplice omaggio reso alle vittime italiane delle foibe e a quelle slave della repressione fascista, insieme al presidente sloveno Borut Pahor, il 13 luglio 2020. Era il centenario di un evento tragico, l’incendio appiccato dai seguaci di Mussolini al Narodni Dom (Casa del popolo slava) nel 1920. E non poteva essere commemorato meglio.
L’insegnamento che ne discende è non rassegnarsi alla logica perversa che fa del Giorno del Ricordo l’occasione per riproporre antiche contrapposizioni o addirittura per imporre, come cerca di fare la destra più aggressiva, una versione canonica e indiscutibile degli eventi in chiave nazionalista e vittimista. Semmai bisogna fare il contrario: continuare la ricerca per indagare la tragedia nelle sue diverse sfaccettature, tenendo conto di tutti i punti di vista. Cogliere l’occasione offerta dal Giorno del Ricordo per diffondere sempre di più la conoscenza dei fatti.
Queste sono le ragioni che hanno indotto il «Corriere della Sera» a mandare in edicola, previo aggiornamento da parte dell’autore, uno dei frutti migliori prodotti dalla storiografia italiana sul problema dei conflitti al nostro confine orientale: Trieste ’45 di Raoul Pupo. Un’analisi attenta e completa della crisi che la città giuliana si trovò a vivere dopo la sconfitta del nazifascismo, quando le truppe del leader comunista Josip Broz, detto Tito, presero il sopravvento e cercarono di imporre l’annessione alla Jugoslavia. La repressione fu molto dura e non colpì certo solo soggetti legati agli ex occupanti tedeschi. Furono gli stessi esponenti del Comitato di liberazione nazionale (Cln) triestino, dal quale si erano staccati i comunisti, che dovettero tornare in clandestinità. Ed ebbero circa 160 caduti per mano jugoslava.
Pupo rievoca con grande efficacia quei giorni drammatici, durante i quali la capacità d’influenza del governo italiano era ridotta ai minimi termini per via della condizione di Paese aggressore e sconfitto in cui ci aveva relegato la politica scellerata di Mussolini. Per fortuna la preoccupazione anglo-americana per l’espansione del movimento comunista internazionale indusse Londra e Washington a contrastare il disegno di Belgrado con la necessaria fermezza.
Alla fine Iosif Stalin, che preferiva evitare guai in quella fase delicata, intimò a Tito di rassegnarsi con un eloquente telegramma: «Entro 48 ore dovete ritirare le vostre truppe da Trieste, perché non ho intenzione di iniziare la terza guerra mondiale a causa della questione triestina». All’epoca — siamo nel giugno 1945 — gli jugoslavi erano ancora ligi alle direttive del Cremlino, ma in quella vicenda possiamo individuare i germi della successiva rottura tra Mosca e Belgrado. Il Partito comunista italiano, che sulla crisi giuliana era in estremo imbarazzo per via dell’appoggio sovietico alle rivendicazioni jugoslave, poté tirare un sospiro di sollievo.
Trieste era salva e nel 1954, dopo alterne vicende, sarebbe tornata all’Italia. Ma i giorni dell’occupazione jugoslava erano stati molto duri e la Venezia Giulia sarebbe passata quasi tutta sotto Belgrado, con il conseguente esodo degli istriano-dalmati dalle loro terre e lo spopolamento di interi centri abitati. Il punto fondamentale sottolineato da Pupo, tuttora eluso da coloro che contestano il Giorno del Ricordo, è «il ruolo fondante della violenza di massa nella costruzione e nel consolidamento del regime jugoslavo». Non siamo di fronte a una semplice ritorsione, ma all’attuazione di un progetto politico annessionista e totalitario.
Sorto da una guerra di liberazione asprissima e vittoriosa, il nuovo potere jugoslavo ne aveva introiettato la carica di brutalità e la riversò nell’abbattimento di ogni ostacolo che gli si opponesse. E la grande maggioranza della popolazione italiana in Venezia Giulia, per i suoi legami con un altro Paese (per giunta collocato nella sfera d’influenza occidentale), costituiva uno di questi ostacoli.
Chiarito tutto ciò, il libro di Pupo ci aiuta a comprendere la necessità «di muoversi senza chiusure mentali all’interno dei diversi contesti nei quali si sono di volta in volta inserite le vicende di un territorio fortemente plurale». Il Giorno del Ricordo ha senso se lo si celebra senza scadimenti nazionalisti, nello spirito di riconciliazione su cui è stato costruito il processo d’integrazione europea. Non è facile, perché certe ferite lasciano il segno. Ma ci si può riuscire, come dimostra il lavoro di Pupo.
Una crisi internazionale al confine con l’Italia
Esce giovedì 10 febbraio in edicola con il «Corriere della Sera» il saggio di Raoul Pupo «Trieste ’45», al prezzo di euro 9,90 più il costo del quotidiano. Si tratta di un’iniziativa realizzata in collaborazione con la casa editrice Laterza in occasione del Giorno del Ricordo per le foibe e l’esodo istriano-dalmata, istituito con una legge del 2004 e celebrato ogni anno il 10 febbraio.
Il libro di Pupo (nato a Trieste nel 1952), che resta in edicola per un mese, è uscito in prima edizione nel 2010: questa riproposta contiene un aggiornamento scritto appositamente dall’autore. L’argomento è la crisi internazionale che nel 1945 esplose per via del tentativo dei partigiani comunisti jugoslavi di annettere Trieste e portarla sotto la sovranità di Belgrado. Le forze del maresciallo Tito (nome di battaglia del leader comunista Josip Broz: Kumrovec, oggi Croazia, 1892-Lubiana, oggi Slovenia, 1980) entrarono per prime nella città giuliana e colpirono non soltanto gli ex collaboratori degli occupanti tedeschi, ma anche gli esponenti del Comitato di liberazione nazionale italiano, dal quale di erano staccati i comunisti del Pci. Infatti il Cln triestino era intenzionato a difendere l’italianità del capoluogo giuliano, una posizione che gli jugoslavi non intendevano tollerare. All’epoca il governo italiano era molto debole, dato che il nostro Paese si trovava a pagare il prezzo delle aggressioni e dei crimini compiuti dal fascismo. Ma gli Alleati intervennero e alla fine le forze di Tito furono costrette a ritirarsi da Trieste. In seguito con il trattato di pace si sarebbe dovuto istituire un mini Stato, il Territorio libero di Trieste, che però non avrebbe mai visto mai la luce. La città venne restituita all’Italia con un’intesa raggiunta nel 1954.
8 febbraio 2022 (modifica il 8 febbraio 2022 | 21:37)
Il progetto di Nico Acampora cresce e diventa un’accademia per sostenere l’inclusione sociale e l’integrazione lavorativa. Workshop e laboratori: la sede formativa sarà a Villa Forno
All’inizio era una bella storia di inclusione. Adesso PizzAut, la prima pizzeria gestita da ragazzi con autismo, fa «scuola». Così l’esperienza di Cassina de’ Pecchi diventa Academy. E nel Comune dell’hinterland milanese nasce Aut academy, l’accademia formativa per cuochi, pizzaioli e camerieri dedicata a ragazzi di età compresa tra i 16 e 29 anni. L’obiettivo è lo stesso del ristorante inaugurato nel maggio scorso: favorire l’inclusione sociale e sostenere l’integrazione lavorativa di giovani affetti da autismo. Il nuovo progetto di PizzAut onlus avrà come partner la Fondazione Mazzini, quindi sarà finanziato con 120mila euro da parte della Regione Lombardia attraverso il Piano Emerso promosso da Città metropolitana. Inoltre godrà del patrocinio del Comune di Milano e sarà sostenuto dal Comune di Inzago. La sede dell’accademia sarà a Villa Forno, i cui spazi sono stati messi a disposizione dall’amministrazione di Cinisello Balsamo per l’attività formativa.
Il progetto-sogno di Nico Acampora – con Francesco, Alessandro, Matteo e tutti gli altri ragazzi – piace, perché tanti sono stati i consensi raccolti in pochi mesi. Ma soprattutto cresce. E non è più solo un esempio di inclusione, bensì svolgerà un ruolo da protagonista attivo per il sostegno a giovani con difficoltà. Con duplice valenza inclusiva: nel mondo del lavoro e nel tessuto sociale. «Solo nell’area di ambito dell’Ats Città Metropolitana di Milano – è stato illustrato nel corso dell’incontro di presentazione della Regione Lombardia a Cinisello – il numero di persone che soffrono di autismo è di circa 5.300». Il percorso formativo di Aut academy prevede 200 ore scolastiche che saranno suddivise in attività didattiche in aula con workshop, atelier didattici e laboratori, e di formazione con modalità impresa simulata e training abilitativi.
E non è tutto. L’ assessore alla Solidarietà sociale, Disabilità e Pari opportunità della Regione Lombardia, Alessandra Locatelli, ha infatti precisato che «questo è solo l’inizio di un percorso per offrire opportunità migliori per tutti i giovani con difficoltà. L’accademia formativa permetterà ai ragazzi coinvolti di crescere in termini di autonomia, sicurezza e autostima, superando anche limiti che, in prima battuta, potevano apparire come insormontabili».
8 febbraio 2022 (modifica il 10 febbraio 2022 | 02:12)
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