di Giulio Sensi

La ricerca di Riabitare l’Italia su ambizioni e progetti di chi vive nelle aree interne. Due ragazzi su tre vogliono rimanere dove sono nati e costruire lì il loro futuro. Ma occorrono azioni per sostenere i progetti. E serve un microcredito innovativo

La chiamano «restanza», è il coraggio di chi resta, la scelta di non abbandonare il proprio paese o la propria comunità anche lontani dai centri urbani, nonostante ci sia poco lavoro o lo si debba inventare. È un sentimento molto più diffuso di quanto si creda, anche fra i giovani. «E non solo – esordisce Andrea Membretti di Riabitare l’Italia – per romanticismo o attaccamento alla propria terra. In realtà la grande fuga dalle aree interne non esiste più. Ora lo sappiamo con certezza». Riabitare l’Italia è gruppo volontario di esperti e attori economici e sociali che hanno deciso di portare avanti un progetto e un sogno: quello di aiutare le persone che vivono nelle aree interne italiane a rimanervi.

Nell’ultimo anno Riabitare l’Italia ha svolto una ricerca, intitolata «Giovani dentro», con l’obiettivo di capire quali sono le ambizioni, e i progetti, dei giovani residenti nelle aree interne. È stata finanziata dalla Fondazione Peppino Vismara e Coopfond, e realizzata in partnership con il Crea per la Rete Rurale Nazionale, il Gssi dell’Aquila, Eurac Research, Università di Torino – Dcps e l’Osservatorio Giovani dell’Università di Salerno. Una ricerca complessa, durata un anno, svolta sia su base campionaria con la partecipazione della società Swg, sia con approfondimenti qualitativi e focus group. «Il dato fondamentale – spiega Membretti, coordinatore dell’indagine – è proprio il desiderio di restanza. Quasi due giovani su tre dichiarano che pensano di rimanere a vivere nelle aree interne, anche se esse si trovano a significativa distanza dai centri di offerta di servizi essenziali. Più della metà vuole costruirsi il proprio futuro dove è nato. Questo è il primo luogo comune che sfatiamo: non vogliono tutti andarsene».

L’identikit

La ricerca ha anche fornito l’identikit dei giovani fra i 18 e i 39 anni: il 70% ha terminato gli studi, il 65% è entrato già nel mondo del lavoro e più della metà ha trascorso o trascorre tempo fuori dal proprio comune di residenza. «Il capitale culturale di questi giovani è rilevante – aggiunge Membretti -. Potrebbero investirlo altrove, ma vogliono farlo nel proprio territorio». Anche perché lì vivono meglio, lontani dai ritmi frenetici delle città e con la possibilità di godere di spazi naturali, desiderio che la pandemia ha fatto aumentare. «Non riguarda solo l’ambiente, ma anche le relazioni sociali di qualità – riprende Membretti – nonché il minor costo della vita».

«Lo studio – aggiunge dal canto suo il presidente di Legacoop Mauro Lusetti – racconta una realtà molto diversa dai luoghi comuni che spesso circolano sia sui giovani sia sulle aree interne. Parla di un desiderio maggioritario di non fuggire e di costruire nel luogo in cui si è nati e cresciuti il proprio futuro. È una volontà che conosciamo bene e che vediamo all’opera in tante cooperative di comunità che nascono in tutto il Paese, dalle Madonie alle Alpi piemontesi».

Unire le forze

Da soli i giovani non possono però farcela. «Serve – aggiunge Lusetti – che il sistema pubblico faccia la propria parte, ma soprattutto unire le forze tra chi è mosso da questo desiderio perché da soli non è possibile, ma insieme si possono trovare le energie per cambiare noi per primi le cose, anche per convincere, ad esempio, gli operatori della telefonia a portare la fibra necessaria per lavorare».

Per restare servono idee e azioni e la relazione fra città e aree interne, anche perché da queste passa la sostenibilità e la riduzione delle emissioni per tutto il Paese. «Parliamo di cucitura metromontana – spiega Membretti – e di politiche di area vasta. Poi serve accompagnamento all’imprenditorialità giovanile. Non bastano i finanziamenti a fondo perduto per chi va a stare nelle baite di montagna, ci vuole scouting, assistenza gratuita ai piani di impresa, formazione specialistica e professionale d’eccellenza per i mestieri, in particolare quelli in agricoltura, silvicoltura e pesca. Il microcredito può aiutare, ma tutto il mondo finanziario dovrebbe fare di più per aiutare con politiche di credito efficaci i nuovi giovani imprenditori».

Ecologia e sostenibilità

L’agricoltura è l’orizzonte che spesso affascina di più, anche per la sua capacità di integrarsi in logiche di filiera con il turismo e l’enogastronomia. Ma solo il 4% dei giovani che lavorano nelle aree interne l’ha scelta. «Queste aree – spiega Daniela Storti, ricercatrice di Crea e esperta di sviluppo rurale – rappresentano un’opportunità per modelli di agricoltura ecologici e sostenibili. Il modello intorno a cui si sta riattivando l’attivismo dei giovani è legato al recupero delle tradizioni e delle colture tipiche: grani antichi, pastorizia, allevamenti di specie animali locali che utilizzano le nuove tecnologie e l’innovazione anche nelle forme di commercio. Sono modelli imprenditoriali – conclude Storti – che mettono al centro la relazionalità e il senso di appartenenza alla comunità. Con il dovuto sostegno possono rappresentare una speranza per tanti giovani che hanno deciso di restare».

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17 novembre 2021 (modifica il 24 novembre 2021 | 07:36)

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