Una ricerca italiana ha messo al centro dell’attenzione una molecola, Mbl, capace di incidere sulla nostra risposta innata al coronavirus. E decisiva in molti sensi: una sua sotto-espressione rende i bambini più vulnerabili alla sindrome di Kawasaki e a infezioni virali e batteriche. E il suo ruolo è determinante anche negli adulti

Giustamente si è molto parlato, in questi giorni, dell’esito di una ricerca italiana (pubblicata su Nature Immunology e coordinata dall’Istituto Humanitas e dall’Ospedale San Raffaele di Milano) sull’incidenza di una molecola specifica, l’Mbl (Mannose-Binding Lectin= Lectina legante il mannosio) nella nostra risposta immunitaria innata verso SARS-CoV-2. In particolare, su come Mbl possa legarsi alla proteina spike del patogeno (quella impiegata per entrare nelle nostre cellule attraverso i recettori ACE2) e bloccarla, e questo «a prescindere dalle varianti».

«Abbiamo scoperto che Mbl, un antenato degli anticorpi, riconosce il virus e ha attività antivirale», ha detto il professor Alberto Mantovani. «La domanda che ci poniamo è: perché in alcuni l’immunità innata funziona e in altri no? Non tutti si ammalano e non tutti si ammalano in forma grave. Ci sono fattori che lo determinano: l’età, lo stile di vita, fumare o non fumare, essere in sovrappeso, e poi c’è una componente genetica. Chi ha varianti sfavorevoli di Mbl è più a rischio di avere la malattia grave. L’immunità innata è fondamentale anche per il cancro».

Le implicazioni sono numerose e a più livelli:
– nell’individuare le predisposizioni genetiche quanto a suscettibilità / gravità della malattia (diverse varianti del gene che esprime Mbl si traducono in diverse risposte, più o meno funzionali);
– nell’eleggere Mbl a «marcatore» della gravità stessa, così come altri marcatori sembrano promettenti su altri tratti diagnostico-prognostici (la proteina Ptx3 rispetto al long-Covid);
— nel prefigurare possibili terapie, dato che — ricordava ancora il professor Mantovani nell’articolo del Corriere — si sta procedendo «a ottimizzare Mbl per capire se sarà possibile trasformarla in farmaco», come già avviene, peraltro, con l’uso clinico ben tollerato in soggetti con completo deficit genetico della proteina.

Può essere allora utile, forse, approfondire la conoscenza di Mbl e della famiglia proteica delle lectine su vari piani (non solo immunologico, ma anche biologico-evoluzionistico, genetico e storico-biomedico), anche per certi aspetti e per certe microstorie sorprendenti che vi si nascondono.

Il saggio è diviso in 5 parti:
1. La scoperta della «famiglia» di cui Mbl fa parte
2. Come funzionano gli «antenati degli anticorpi» (e la risposta dei virus)
3. Il polimofismo di Mbl: le varianti della molecola e l’impatto sulle malattie
4. Il legame tra Mbl e sindrome di Kawasaki, nei bambini
5. Il legame tra Mbl e coronavirus negli adulti

1. Dalle piante «tossiche» al sistema immunitario: la scoperta della famiglia di Mbl

In un primo momento, tra fine ‘800 e inizio ’900, le lectine vengono identificate soprattutto nelle piante, in particolare due emagglutinine altamente tossiche, a opera di due allievi dell’insigne farmacologo tedesco Rudolf Kobert: nel 1888 Peter Hermann Stillmark isola dal ricino comune la ricina; tre anni dopo, Heinrich Hellin isola dall’abro — della famiglia del fagiolo — l’abrina. E se proprio nelle piante il loro ruolo resta elusivo e controverso (negli stessi legumi e nei cereali le lectine costituirebbero una difesa chimica contro gli insetti, di cui interrompono la funzionalità del tratto digerente), nel tempo emergono invece con sempre maggior precisione le loro funzioni regolatrici negli organismi animali, come nei casi dell’adesione cellulare, della sintesi glicoproteica e dei livelli di proteine nel sangue.

In ambito immunologico, si interessa alle due lectine tossiche — «in tempo reale» — uno dei Padri fondatori della disciplina, Paul Ehrlich; ma una delle svolte-chiave avverrà con un altro di quei Padri, il Nobel australiano Frank Macfarlane Burnet, quando individua nel 1946 (con l’allievo John McCrea) la concentrazione sierica di tre inibitori del virus influenzale (α,β,γ), il secondo dei quali, a posteriori, verrà a coincidere proprio con Mbl, la «lectina legante il mannosio». Burnet, per inciso, è uno degli studiosi che più hanno contribuito a comprendere la discriminazione che svolge il nostro sistema immunitario tra i tratti molecolari propri dell’organismo (self) e quelli estranei (not-self). Mentre bisognerà aspettare un’altra trentina danni per vedere l’Mbl finalmente isolato nei mammiferi, prima nei conigli (1978) e poi nell’uomo (’83).

2. Come funzionano gli «antenati degli anticorpi» (e quali sono le risposte dei virus)

Questa successione cronologica nella messa a fuoco delle lectine e di Mbl sembra quasi «doppiare» quella delle lontananze del «tempo profondo» dell’evoluzione: in origine, le lectine non sono proteine «immunitarie» (abbiamo visto alcune delle loro altre funzioni), ma vi vengono convertite successivamente, in coerenza col dettato del bricolage selezionistico che adatta certe strutture a nuove funzioni secondo le interazioni e le pressioni ambientali. Quel passaggio è comunque molto remoto, se le lectine sono ora comprese a tutti gli effetti tra i cosiddetti PRR o meglio PPRR (Primitive Patterns Recognition Receptor), i «recettori dell’immunità innata», apparsi molto precocemente lungo la linea evolutiva, ben prima degli anticorpi, di cui costituiscono un antenato funzionale. Tali pattern sono adibiti al riconoscimento di altri pattern altrettanto arcaici, i cosiddetti PAMP (Pathogen-associated molecular pattern= «pattern molecolari associati ai patogeni»), tratti biochimici contenuti in proteine e acidi nucleici di varie specie di microbi. Tra gli «antenati degli anticorpi» più noti — e più rilevanti — troviamo alcune proteine delle cellule dendritiche o i TLR (toll-like receptor), sensori molecolari che riconoscono certi PAMP e attirano in loco proteine in grado di bloccare la replicazione del patogeno, a partire dagli interferoni.

L’azione di Mbl (e in generale delle lectine) è del tutto simile.

Se il patogeno invasore esprime tratti riconosciuti — carboidrati e in particolare zuccheri, in questo caso il mannosio, un monosaccaride — la proteina attiva il cosiddetto «sistema del complemento», ovvero un insieme di poche decine di altre proteine tese a formare aggregati che perforano la membrana cellulare del bersaglio microbico e lo uccidono per lisi («scioglimento»).

Senza dimenticare due aspetti decisivi: a) il «complemento» contiene anche glicoproteine che promuovono la captazione dei microrganismi patogeni da parte delle cellule fagocitarie; b) tale dinamica si svolge al confine tra sistema immunitario innato e acquisito (o adattativo), dato che il «riconoscimento» dei PAMP innesca una cascata coinvolgente gli anticorpi e il processo infiammatorio. Questo riconoscimento molecolare lungo la «via lectinica» può avvenire con ogni tipo di patogeno rientrante nello «spettro» molecolare riconoscibile dall’Mbl, cioè, nella fattispecie, connotato da residui di mannosio: si tratti di batteri (come certi ceppi di salmonella, listeria o neisseria), di certi tipi di funghi o infine di virus, come HIV-1 o il virus respiratorio sinciziale.

Il punto critico, però — o uno dei punti— consiste nella «contro-risposta» dei virus, secondo un’«arte dell’inganno» che elegge nel mimetismo una delle sue modalità predilette di elusione delle nostre difese. L’esempio — cardine, in questo caso, è un virus aggressivo come Ebola, su una cui proteina di membrana (GP1) si è prodotta nel tempo per cieco selezionismo (senza alcuna intenzionalità, è bene ricordarlo) una «treccina di zuccheri» che attira la lectina e ne utilizza l’assetto molecolare per dare avvio all’infezione. Non stupisce, quindi, che in questo caso l’ospite — cioè noi — abbia selezionato a sua volta una «contro-controrisposta», come in un contrappunto musicale: una variante genetica che sotto-esprima Mbl, per togliere al virus una possibile via d’ingresso alle cellule dell’organismo.

3. Le «varianti» della molecola Mbl — e l’incidenza sulle malattie

L’esempio di Ebola è idoneo per passare al tema del rapporto tra geni e Mbl e al relativo polimorfismo, ovvero alle varianti del «wild-type» (cioè la versione più comune, quella che esprime il fenotipo naturale, non mutato) selezionate secondo ambienti e contesti diversi.

I geni di Mbl dovrebbero essere due: in realtà Mbl-1 è uno pseudo-gene, e solo Mbl-2 (isolato sul cromosoma 10) è in grado di esprimere la proteina-recettore.

Rispetto alla versione più comune (A) di Mbl, sono diffuse tre varianti (B, C e D): decisive sono B (per lo più in popolazioni eurasiatiche e nelle Americhe) e C (prevalente nelle popolazioni sub-sahariane) , la B introdotta- secondo studi recenti- intorno ai 50.000 anni fa, e approdata in Americhe introno ai 20.000, al tempo dell’ultima glaciazione.

La chiave consiste proprio nel polimorfismo. Abbiamo appena ricordato il mimetismo molecolare di Ebola: ma ci sono diversi altri virus (o patogeni in genere) in grado di utilizzare certe strutture del sistema immunitario innato — come i recettori C3 dei monociti o dei macrofagi — per entrare nell’ospite, convertendo un meccanismo di difesa in una possibile esposizione al rischio.

Anche in questi casi, una riduzione dell’espressione genetica di Mbl — attraverso una variante della versione più comune — che si traduca in una minor attivazione del complemento (la «funzione» di Mbl), risulterebbe adattativa ovvero vantaggiosa.

Diversi dati sembrerebbero confermarlo: per esempio quelli di certi Paesi sub-sahariani su pazienti di leishmaniosi viscerale (sindrome dovuta a un protozoo introdotto dalle punture di pappataci femmine) o quelli emersi da un piccolo studio su pazienti etiopi lebbrosi, gli uni e gli altri con livelli di Mbl molto più alti della norma. Mentre i dati sull’HIV sono al momento contradittori: se da un lato un deficit di Mbl sembra aumentare il rischio di contrarre il virus da 3 a 8 volte, dall’altro un allele che determini una sua sotto-espressione sembrerebbe proteggere dal sarcoma di Kaposi, associato all’AIDS. In generale, secondo diversi studi, ai Tropici certe varianti del wild-type di Mbl-2 (con sotto-espressione della proteina e una ridotta risposta del complemento, che coincide anche con una precisa modulazione della risposta immunitaria complessiva) implicherebbero in molti casi un vantaggio adattativo-funzionale, nel senso di prevenire situazioni immunopatogeniche. Al punto che qualcuno si è spinto ad avanzare analogie col caso celebre, a quelle latitudini, dell’anemia falciforme selezionata nelle popolazioni quale antidoto evolutivo alla malaria: come per Ebola una sotto-espressione genica di Mbl toglie al virus un possibile canale d’ingresso, la «cellula falciforme» impedisce a Plasmodium falciparum di utilizzare nei globuli rossi dei contagiati una proteina-ponte, l’actina, per trasportare una propria proteina, l’adesina, decisiva per l’«invasione».

Ma il quadro è diverso in Asia e in Occidente, dove il case study per eccellenza è a livello pediatrico.

4. Mbl e la sindrome di Kawasaki, nei bambini

Il 5 giugno 2020, nel pieno della pandemia da COVID-19, scompare a 95 anni Tomisaku Kawasaki, leggendario pediatra giapponese. Se ne va non per il virus, ma per morte naturale, un anno dopo la moglie Reiko, chiudendo una parabola cominciata con una passione adolescenziale per gli alberi da frutto (la pera in particolare) interrotta da un madre che lo voleva a ogni costo medico.

A laurea acquisita, si dedica per una decina d’anni alle allergie da latte.

Poi, nel ’61, la svolta accidentale: si imbatte in un bambino di 4 anni con una miriade di sintomi clinicamente indecifrabili, e l’anno dopo in un altro caso simile. Arrivato a 7 casi, propone alla Japanese Pediatric Association uno studio al riguardo, ma i revisori lo rifiutano, non riconoscendo «una nuova patologia» in quella che Kawasaki denomina MCLS («Mucocutaneous lymph node syndrome») e che entrerà poi nella pediatria proprio come «sindrome di Kawasaki» (SK), con la sua costellazione di sintomi: febbre alta, rash cutaneo, congiuntivite, infiammazioni delle mucose.

Un quadro che a volte degenera — per fortuna in una minoranza di casi — nel coinvolgimento delle arterie cardiache, fino all’aneurisma coronarico. Quella resistenza verrà vinta solo con un paper di 44 pagine sulla Japanese Journal of Allergy del ’67, studio esemplare su 50 casi definito nel 2002 dall’eminente pediatra Jane C. Burns «un capolavoro della letteratura clinica, tra Sherlock Holmes e Charles Dickens per il suo senso del mistero e le sue descrizioni vivide».

L’anno-chiave sarà il ’78, quello del riconoscimento ufficiale dell’MCLS; ma anche quello, guarda caso, in cui l’equipe di un altro Kawasaki (il suo quasi omonimo Toshishuke) isola dal fegato del coniglio l’Mbl, il cui ruolo nella sindrome risulterà, negli anni a seguire, determinante. Solo in Giappone — dal ’70 al 2007, con picchi di casi nel ’79, ’82 e ’86 — il KD ha interessato 200.000 bambini; ma la sindrome è ormai nota e curata in tutto il mondo.

Il coinvolgimento dell’Mbl — come hanno confermato molti studi — riguarda in primo luogo proprio una sotto-stimolazione del «complemento»: in tutti i primi anni di vita, ma soprattutto nella «finestra» compresa tra i 6 mesi e i 2 anni — tra il decalage delle difese materne, in particolare delle gammaglobuline G, e una prima articolazione delle proprie- nel neonato e nel bambino l’Mbl è decisiva per organizzare una protezione di base.

Una sua sotto-espressione dovuta al polimorfismo genico, quindi (con una modulazione disfunzionale del sistema immunitario) lo rende più vulnerabile agli agenti patogeni: oltre alla sindrome di Kawasaki, neonati e bambini piccoli sviluppano diverse infezioni virali e batteriche, specie respiratorie.

In secondo luogo, sembra essere sempre più evidente la relazione tra quella sotto-espressione e le complicanze più severe della sindrome di Kawasaki quali la «rigidità» arteriosa e le lesioni coronariche.

Di tutto questo, abbiamo avuto conferme proprio con COVID-19 e proprio in Italia: vedi i casi di (simil) Kawasaki nella bergamasca (una delle aree di maggiore emergenza pandemica nazionale) e il consistente studio a seguire, pubblicato su Lancet (Lucio Verdoni et al.).

Ma il polimorfismo genico e la sotto-espressione di Mbl non riguarda solo i bambini. E qui torniamo circolarmente al punto di partenza.

5. Mbl e i coronavirus, negli adulti

Un deficit di espressione di Mbl (e il suo impatto nell’immunomodulazione, cioè in una corretta risposta immunitaria complessiva, né carente né parossistica) è riscontrato in diverse patologie, anche gravi
– nella fibrosi cistica, in cui certi alleli di Mbl-2 determinano nei soggetti un’esposizione alla malattia tale da compromettere le funzioni polmonari e ridurre l’aspettativa di vita;
– nei casi di risposte infiammatorie sistemiche e/o croniche, che possono condurre a complicanze come lo shock settico e predisporre all’infarto miocardico;
– nelle infezioni batteriche da mycoplasma, in cui pazienti con deficit immunitari multipli (sia innato che acquisito) sviluppano ad esempio malattia artritica;
– nelle epatiti B e C, in disagi autoimmuni come l’SLE (il lupus eritematoso) o nella citotossicità dei tumori (versante tutto da approfondire).

Quanto al rapporto tra coronavirus e Mbl , non solo è ben conosciuto nei felini (v. i contributi su FIP e l’incidenza delle lectine), ma si affaccia, per l’uomo, già SARS-CoV (o SARS-1).

Fin dalla decifrazione del virus nel 2003, infatti, viene notata sulla sua superficie un’abbondanza di zuccheri tale da predisporlo fortemente all’interazione con Mbl.

E studi successivi confermeranno il coinvolgimento della proteina nel progredire dell’infezione: prima, verrà notata una «sofferenza» del sistema immunitario innato nella fase iniziale della malattia (con gli anticorpi formati a una decina di giorni dall’infezione); quindi, analisi comparative evidenzieranno «enormi differenze» di livelli di Mbl tra contagiati da SARS e gruppi di controllo. In quel momento, però, si pensa che tali differenze possano incidere solo sulla «suscettibilità» e non sulla «severità» della patologia.

Ora, invece, lo studio italiano include anche la possibilità di decifrarne- come si accennava — la severità/letalità.

Con alcuni aspetti discriminanti da approfondire.

Si è documentato ad esempio come un deficit di risposta «primaria» (sia del sistema immunitario innato che degli interferoni) determini una modulazione disfunzionale della risposta d’insieme, così da scatenare quella parossistica «tempesta di citochine» (in particolare una sovra-risposta di interleuchina 6, II6) come connotazione dell’evoluzione verso la forma severa della malattia.

Quanto conta, in questo deficit di immunomodulazione, una predisposizione genetica a una «variante» di Mbl (una sotto-espressione di Mbl da parte di Mbl-2)?

Rispondere a questa domanda vorrebbe dire avere un mezzo in più di contrasto non solo verso SARS-CoV-2, ma probabilmente verso altri coronavirus emergenti.

E allargando lo spettro, sarà capitale comprendere sempre meglio la genetica e la biologia molecolare di Mbl, data la lunga lista di patologie connesse a una sua disfunzionalità, che siano di massa o «malattie rare».

Possono sembrare (e in parte lo sono) dettagli specialistici: in fondo, parliamo solo di una proteina-recettore. Ma forse è giusto ricordarsi — soprattutto ora che l’orizzonte sembrerebbe davvero rischiararsi, lasciando posto a una rimozione in parte comprensibile dopo la paura e l’insofferenza — che è da questi dettagli nell’ombra che dipendono e dipenderanno sempre tante vite salvate; tante sofferenze, individuali e sociali, risparmiate.

FONTI
Libri
Giovanni Maga, Occhio ai virus, Zanichelli, 2012;
Michal G. Cordingley, Viruses. Agents of Evolutionary Infections, Harvard U.P., 2017.

Studi e articoli
Lo studio italiano su Mbl: Matteo Stravalaci et al., Recogniton and inibition of SARS-CoV-2 by humoral innate immunity pattern recognition molecules, Nature Immunology, 31 gennaio 2022.

Per un inquadramento generale delle lectine e Mbl (storia, biologia evoluzionistica, genetica e patologie correlate): R.M. Dommett et al., Mannose-binging lectin in innate immunity: past, present and future, Tissue Antigen, settembre 2006, 193-209.

Su Tomisaku Kawasaki: Neil Genzingler, Dr. Tomisaku Kawasaki, Who Pinpointed a Mysterious Disease, Dies at 95, New York Times, 20 giugno 2020.

Sulla sindrome di Kawasaki in Italia durante la pandemia di COVID-19: Lucio Verdoni et al., An outbreak of severe Kawasaki-like disease at the italian epicentre of the SARS-CoV-2 epidemic: an observational cohort study, The Lancet, 13 maggio 2020.

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