di Marco Ricucci*

Oggi i ragazzi arrivano in prima liceo senza saper parlare né scrivere nella lingua madre, anzi matrigna. E’ ora di tornare a Massimo D’Azeglio e di «ri-fare l’italiano», smontando i programmi ministeriali e ripartendo dalla grammatica

«Fatta l’Italia, bisogna fare l’italiano»: così si potrebbe parafrasare una famosa sentenza attribuita a Massimo d’Azeglio, all’indomani della tanto attesa unificazione del nostro Paese. Infatti, una volta formato il Regno d’Italia, come è noto, si pose il problema della necessità di una lingua nazionale, che potesse completare il senso e l’esistenza di uno Stato unitario.

La risposta storico-letteraria alla necessità «politica» fu fornita da Alessandro Manzoni, che riprese il fiorentino parlato dai colti a lui contemporanei, filtrato dalla gloriosa tradizione della letteratura italiana, con il «reuccio» Dante Alighieri. Ancora oggi i Promessi sposi sono, insieme alla Commedia dantesca, un testo base di tutte le superiori della Repubblica. Pochi ricordano che il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze fu pubblicato nel 1870 da Giovan Battista Giorgini e dallo stesso ministro dell’Istruzione, Emilio Broglio. Al giorno d’oggi, si ripropone, in chiave apparentemente solo pedagogica, ma con ripercussioni socio-culturali, quella che potrei ribattezzare la «neo-questione della lingua italiana», che consiste in un generale e progressivo impoverimento delle competenze linguistiche di lettoscrittura dei giovani.

Prova di questo «decadimento» non sono soltanto dei risultati Invalsi, ma anche il «tampone» un po’ generale per cui le università, inventate in epoca medievale, ma oggi de facto ma non de iure «liceizzate», organizzano, per le matricole, dei veri e propri corsi di recupero di matematica, di scienze, di comprensione del testo italiano e di grammatica italiana. Si tratta dei cosiddetti Ofa (Obblighi Formativi Aggiuntivi), previsti da D.M. 270/2004 per l’accesso ai corsi di laurea triennali e magistrali a ciclo unico; e tali carenze su competenze di base e traversali sono accertate mediante test specifici, per esempio il Tolc.

Ora, con tutta onestà intellettuale, dovremmo domandarci: ma in 13 anni di scuola, che cosa hanno imparano le nostre ragazze e i nostri ragazzi? Il vero tesoro, o meglio capitale umano, per il futuro di un Paese civile, avanzato e democratico, non è forse la formazione e la preparazione dei nostri allievi? «Chi è dappertutto, non è da nessuna parte», scrive Seneca al suo allievo Lucilio: «Quando uno passa la vita a vagabondare, avrà molte relazioni ospitali, ma nessun amico. Lo stesso capita inevitabilmente a chi non si dedica a fondo a nessun autore, ma sfoglia tutto in fretta e alla svelta». Ho l’impressione che la scuola italiana sia un po’ come vagabondare nella summa dei saperi senza però incidere nelle abilità di base.

Veniamo dunque alla lingua italiana, che insegno a scuola e all’università, nei menzionati Ofa. In modo provocatorio, mi chiesi se fosse più «utile» per i nostri ragazzi leggere, o meglio decifrare, I promessi sposi, oppure – forse- dedicare quel tempo, già decurtato dalla Riforma gelminiana, a insegnare la grammatica e la scrittura dell’italiano corrente . Ebbene, sono stato bersaglio di attacchi e polemiche, come se avessi profanato un idolum scholae! E ciò mi ha confermato di aver scoperchiato il vaso di Pandora, mettendo a nudo ciò che, per varie ragioni, non si vuole vedere, come se la realtà dei nostri allievi fosse il volto di Medusa. Ricordo, per inciso, che l’idea di una traduzione dei testi letterari italiani ha, in ogni caso, uno sponsor morale d’eccezione, don Lorenzo Milani, che in una lettera, peraltro mai spedita, si era immaginato non di accostare una traduzione al capolavoro manzoniano, ma addirittura di sostituire nel testo le parole arcaiche e obsolete, e soprattutto le parole di significato oggi non più corrente, con parole più comuni. Naturalmente, la proposta del priore di Barbiana era figlia dei suoi tempi e io non sono tanto eroico come Perseo, ma volare su Pegaso mi permette di avere una visione più generale da raccontare in questa riflessione.

Suscitò, inoltre, un grande dibattito sulle pagine dei maggiori quotidiani e animò polemiche tra accademici, la versione in prosa delle Canzoni di Leopardi curata da Marco Santagata e uscita con testo a fronte per gli Oscar Mondadori nel 1998. Insomma, il professore dell’ateneo patavino, invece di porre la sua versione in nota, strofa per strofa, come accade normalmente in tutte le antologie scolastiche, osò collocarla a fronte, quasi fosse una trasposizione, parafrasi, traduzione, re-interpretazione, versione in prosa…qui non interessa rievocare il dotto vespaio di quella solitaria operazione culturale. Certo – occorre puntualizzare – a scuola ancora oggi si vivono i postumi di quella ventata di fresca novità che si ebbe negli anni Settanta in una scuola rinnovata da governi di centro-sinistra, che hanno modernizzato il Paese; tuttavia, a furia di avere il focus sul «messaggio» del testo, si è persa per strada la consapevolezza della «forma» voluta dall’autore. A furia di non fare la grammatica a scuola, si è persa la lingua, perché gli studenti arrivano spesso al primo anno di liceo senza avere la cassetta degli attrezzi per l’approccio con la lingua madre, anzi matrigna , sempre più lontana dalla lingua che i ragazzi sentono in un mondo del passato trascolorato.

Ad un ragazzino, di conseguenza, sarà più intellegibile un testo di una canzone del rapper torinese Shade, che costruisce testi creativi in italiano secondo lo stile del free-style, piuttosto che la decifrazione di testi letterari che, purtroppo, sono sempre più come la stele di Rosetta per Champollion. Perciò, si dovrebbero sgonfiare, senza troppa retorica e con più pragmatismo, i «programmi» ministeriali, che peraltro non esistono più, e affrontare tutti insieme la «neo-questione della lingua italiana»: a partire dall’università, che dovrebbe discutere e offrire soluzioni di buon senso, e in base alla scienza e coscienza, alla classe politica. La scuola poi deve fare il suo: sperimentare in dialogo didattico con i cittadini del domani. Se con coraggio non si trovano soluzioni pedagogiche praticabili, il rischio sarà proprio che i nostri ragazzi non capiranno nemmeno la versione in prosa delle «canzoni» di Leopardi ma solo canzoni di chi, per esempio, si fa chiamare «poeta urbano», quale cantante nella realtà. Non si tratta solo della lingua italiana, ma della sostanza della stessa democrazia: nel secondo millennio un re illuminato come Hammurabi fece scrivere uno dei primi codici delle leggi della storia umana, su grandi pietre collocate pubblicamente nel suo vasto impero, ma quasi nessuno dei suoi sudditi era in grado di «capire» perché non sapeva né leggere né scrivere.

*professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano

4 ottobre 2021 (modifica il 5 ottobre 2021 | 17:05)

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