Un nuovo record per James Webb: il telescopio spaziale ha nuovamente superato sé stesso e i limiti delle sue osservazioni scovando la galassia più distante mai scoperta fino a questo momento.

Questa galassia, che era già nata circa 290 milioni di anni dopo il ‘Big Bang’, presenta caratteristiche particolari con “profonde implicazioni” per la nostra comprensione dei primi vagiti dell’Universo, ha spiegato giovedì la NASA in un post sul suo blog.

“Siamo felici di vedere la straordinaria diversità delle galassie che esistevano agli albori del cosmo”, dicono gli autori della ricerca. In astronomia, vedere lontano significa andare indietro nel tempo. La luce del Sole, ad esempio, impiega otto minuti per raggiungerci, quindi la vediamo come era otto minuti fa. 

Guardando il più lontano possibile, possiamo vedere gli oggetti come erano miliardi di anni fa. Ma la luce emessa da oggetti molto lontani si è allungata fino a raggiungerci e si è “arrossata” lungo il percorso, passando per una lunghezza d’onda invisibile a occhio nudo: l’infrarosso. Qui entrano in campo le grandi potenzialità del telescopio spaziale di NASA, ESA e CSA.

Grazie ai dati forniti da Webb, un team internazionale che vede come capofila la Scuola Normale Superiore di Pisa e comprende l’Università dell’Arizona, Cambridge, l’Harvard & Smithsonian e altri 20 istituti e atenei, ha potuto misurare con precisione la distanza tra la Terra e questo agglomerato di stelle, il più lontano finora conosciuto a più di 13,4 miliardi di anni luce.

La galassia, chiamata Jades-Gs-z14-0, era presente nella fase di vita dell’Universo chiamata dagli astrofisici ‘alba cosmica’, caratterizzata dalla formazione dei primi sistemi di stelle e la conseguente generazione dei primi fotoni, gas e buchi neri.

In questa fase primordiale dell’Universo, viene sottolineato in una nota della Scuola Normale di Pisa, le proprietà intrinseche della galassia sono sorprendenti. Ad esempio, Jades-Gs-z14-0 è molto luminosa e ha già formato circa un miliardo di stelle simili al nostro Sole. 

“L’esperimento dimostra che quando l’Universo aveva solo 300 milioni di anni di vita, il 2% della sua età attuale, esistevano sistemi di stelle del tutto sviluppati, molto più velocemente di quanto previsto dai modelli”. Questo dato, prosegue la nota, “si contrappone alle previsioni dell’ultimo decennio, che ritenevano grandezza, luminosità e ricchezza di stelle nelle galassie possibili solo in fasi successive”.

La ricerca, condotta in collaborazione con la Nasa, è stata coordinata da Stefano Carniani, del gruppo di Cosmologia e Astrofisica della Normale. Hanno partecipato anche la dottoranda Eleonora Parlanti e l’assegnista di ricerca Giacomo Venturi.

“Le immagini ottenute con il telescopio Webb ci mostrano una istantanea dell’Universo miliardi di anni fa”, spiega Carniani: “Come il rombo del tuono arriva al nostro orecchio con alcuni secondi di ritardo rispetto a quando osserviamo la scarica del fulmine, lo stesso accade con la luce proveniente da galassie lontane, che ci restituisce un’immagine del passato. In questa ottica, JADES-GS-z14-0 rappresenta la prova tangibile che nell’Universo primordiale esistevano galassie luminose gia’ pienamente sviluppate. Un fatto straordinario, e allo stesso tempo misterioso, pensare che raggruppamenti di stelle cosi’ grandi fossero gia’ presenti appena 300 milioni di anni dopo il Big Bang”.

A livello comparativo l’analisi dei dati – ottenuti grazie allo spettrografo NIRSpec a bordo del Webb – ha rivelato che, pur avendo una dimensione oltre 10 volte più piccola di quella della nostra galassia, la Via Lattea, JADES-GS-z14-0 sta formando nuove stelle a un tasso 20 volte superiore. Inoltre la luce emessa non è dovuta ad un buco nero massiccio in crescita come alcuni modelli teorici ipotizzavano, ma ai fotoni che provengono dalle nuove stelle, che si stanno formando ogni anno. 

La scoperta è descritta in tre documenti. Due di questi sono in fase di revisione ma sono disponibili in formato elettronico come Carniani e altri e Helton e altri. Il terzo articolo è stato accettato per la pubblicazione sull’Astrophysical Journal ed è anche questo disponibile sulla piattaforma ArXiv.

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