di Sara Piccolo

«One man jail: le prigioni della mente» è un progetto che usa lo streaming per portare nelle sale lo spettacolo dei giovani in prigione. Non è solo arte ma un percorso formativo

Si chiama «One Man Jail: le prigioni della mente»: è il primo e per ora unico spettacolo in Italia che utilizza le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere. E’ andato in scena martedì 25 e mercoledì 26 gennaio 2022 a Firenze (Teatro Cantiere Florida). Lo spettacolo, è prodotto dalla Compagnia «Interazioni Elementari», grazie alla diretta streaming ha materializzato sul palco in tempo reale i giovani attori detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni «G. Meucci» di Firenze, per raccontare una storia di ossessioni e libertà, mentre il pubblico si è trasformato per due ore in un gruppo di prigionieri in un caleidoscopio di ribaltamenti e cortocircuiti tra dentro e fuori.

Come si fa?

La produzione si inserisce nel progetto «Streaming theater: un ponte tra carcere e città», percorso di formazione nei mestieri dello spettacolo che punta alla cittadinanza attiva e all’inclusione sociale attraverso il teatro e la performance. Il regista Claudio Suzzi è un fiume di parole, racconta quest’esperienza formativa per i giovanissimi detenuti, che tocca profondamente la sua vita, un vero e proprio percorso pedagogico e formativo che riguarda i ragazzi che conoscono il carcere a giovane età (14-25 anni). Il percorso formativo inizia con un colloquio personale con i singoli partecipanti, il primo passaggio è creare un patto di fiducia, che i ragazzi devono accordare. Il teatro come arte espressiva implica l’uso primario del corpo e della voce attraverso alcuni esercizi di performance particolari, che mettono in gioco i partecipanti in maniera diversa da come sono abituati. La scena è vissuta come un campo da gioco dove chi partecipa si deve allenare sfidando i propri limiti. Il successo del processo educativo passa necessariamente dalla riconquista della fiducia in se stessi, questo punto per i ragazzi del carcere è amplificato all’ennesima potenza, in quanto a causa dei modelli di riferimento che hanno interiorizzato e che sono in prevalenza diseducativi (storie di violenza, delinquenza, spaccio, abbandono), si comportano in maniera disfunzionale.

Il modello di vita

A differenza dei coetanei che crescono in situazioni di normalità ricche di modelli alternativi, famiglia, scuola insegnanti, amici, il background dei giovani detenuti è unidirezionale, non hanno mai avuto un’alternativa migliore, adeguarsi al loro ambiente e alla delinquenza è spesso una necessità di sopravvivenza. Nessuno gli ha mai dato fiducia, sono molto schivi e attenti a non lasciarsi andare. Quindi alla base di tutto ritorna sempre il patto di fiducia che deve essere reciproco: affinché loro si fidino del regista, lui si deve fidare di loro. L’arte teatrale è intrinsecamente formativa e pedagogica, perché mette in luce le possibilità soggettive, con l’obiettivo di fare sentire i partecipanti protagonisti di se stessi, il teatro è da sempre la metafora della vita. Prima dell’arrivo in carcere questi giovani non hanno imparato a costruire qualcosa nelle loro vite, l’atteggiamento comune è di volere tutto subito, che ogni sforzo è inutile, invece quando partecipano a una produzione teatrale conoscono il lavoro di squadra, imparano ad allenarsi per raggiungere un obiettivo e a dare il massimo delle proprie possibilità.

Incontrare sé stessi

Il primo approccio è di tipo propedeutico indirizzato verso la scoperta: conoscono la poesia, i racconti e i personaggi (non solo fatti di eccessi). Per interpretare i ruoli vengono guidati in un percorso di scrittura creativa, che gli dà la possibilità di creare i mondi che interpreteranno. Al momento in cui si presenta la storia, su cui è costruito lo spettacolo, capiscono che lì dentro possono vivere le loro alterità attingendo nel loro vissuto interiore, è il modo in cui possono mettere in scena loro stessi e incontrare altri personaggi immaginari che gli permettono di scrivere e dirigere la propria storia di vita. Per entrare in scena scoprono il rigore di costruire uno spettacolo, lo stesso rigore necessario per realizzare ogni obiettivo nella vita, una capacità umana che conoscono per la prima volta e che inizia a scardinare Il nichilismo che li permea: la convinzione costante è che la loro condizione di detenuti e la società non gli danno possibilità di una vita diversa.

Esportare l’esperienza

L’acquisizione di competenze trasversali è uno dei punti di forza: miglioramento nell’utilizzo della lingua italiana, nella percezione di se stessi e nell’autostima, stimolo alla creatività attraverso l’apprendimento di tecniche narrative, uso del protagonismo basato su modelli sani. Inoltre lo spettacolo li porta nelle comunità cittadine in una chiave positiva, ricordandogli che non si devono sentire dimenticati, sono stati e saranno cittadini attivi, quest’aspetto permette di abbassare i comportamenti recidivi. «Ma noi lavoriamo anche perché i ragazzi vengano scritturati come attori – spiega il regista – remunerati come lavoratori dello spettacolo. Per questo sarà fondamentale distribuire lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” in modo da farlo conoscere il più possibile nei teatri della Regione Toscana e del circuito nazionale, obiettivo ora possibile grazie alla nuova modalità di collegamento in diretta live sulla quale si basa la produzione». La tecnologia permette di ampliare le possibilità di replica dello spettacolo e questo moltiplica il valore del laboratorio come avvio al lavoro di attori e non solo, in quanto alcuni dei partecipanti decidono di applicarsi nei mestieri dello spettacolo (tecnico audio, delle luci, per le scenografie …).

Il teatro in carcere

È importante ricordare che il carcere minorile è una dimensione particolare, tutte le attività rieducative sono in sinergia con la direzione penitenziaria, e in particolare con l’area educativa. All’interno del carcere ci sono la scuola ed altri laboratori educativi detti «attività trattamentali». Il regista Claudio Suzzi si è specializzato sul teatro legato alle marginalità, dopo il Phd in Storia dello spettacolo ha avuto esperienze internazionali, ed ha iniziato a lavorare nel Carcere minorile di Firenze nel 2002, successivamente l’esperienza si è spostata sul carcere per adulti di Trani. Nel 2017 ha ripreso la collaborazione con il Minorile di Firenze, attraverso laboratori propedeutici. Dal 2018 ha ideato un piccolo festival «Spiragli – Teatri dietro le quinte» con un programma che si svolge dentro e fuori il carcere, con aperture verso la comunità locale, workshop di esperti per i detenuti e una festa conclusiva per presentare le realtà formative che esistono dentro l’ambiente penitenziario. L’obiettivo di Suzzi è quello di creare una Scuola stabile di teatro sociale e di comunità che permetta alle categorie più fragili di sperimentare la potenzialità delle nuove tecnologie: «In noi esiste una verità primitiva di esseri animali che il carcere non nasconde. In carcere si mette alla prova sia l’uomo sia il teatro». Il progetto è finanziato dal bando della Regione Toscana “Giovani al centro” e rientra nell’ambito di Giovanisì, dal Ministero della giustizia – Dipartimento della giustizia minorile e di comunità – e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. Un ringraziamento particolare va alla dirigente del Centro di giustizia minorile di Toscana e Umbria Maria Gemma Bella e ad Antonella Bianco, direttrice dell’Istituto penale per i minorenni «G. Meucci». Infine, c’è una buona notizia, tre ragazzi detenuti usciranno in permesso premio per prendere parte fisicamente allo spettacolo.

7 febbraio 2022 (modifica il 7 febbraio 2022 | 16:44)

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