Libellula. Aveva risposto così, dall’ospedale di Voltri dove stava combattendo per una camera vista mare, alla domanda «che cos’è per te la forza? Ti fa pensare più a una tigre o a un colibrì?».

Stavamo lavorando, mentre lei fotografava l’alba attraverso la finestra, a uno dei nostri ultimi progetti. Un podcast su «un altro genere di forza», una serie a puntate che — dopo decine di incontri e interviste — andrà a chiudersi con un suo breve monologo.

E allora, Luisa, che dici: tigre o colibrì?
«Io dico libellula: non ape operosa, non farfalla».

Ali di libellula come idee battenti, parole scelte con cura, relazioni che ti tengono in volo. Connessioni, così veloci e leggere da sembrare invisibili. Ma consistenti, altrimenti ti schianteresti.

Perché Luisa Pronzato, 67 anni — giornalista fantastica, tra le migliori e i migliori che io abbia incontrato in 30 anni di Corriere della Sera — era la marchesa delle connessioni: univa i punti, univa le persone, armata solo del suo stupore autentico.

Fino a quell’ultimo sabato, sabato scorso che sembra mille anni fa, quando una collega le ha raccontato come — dopo averla conosciuta alla redazione online — avesse smesso di sognare il maschio Alfa e pensato per la prima volta a un compagno, un alleato, un sostegno. «Vedi Luisa», l’aveva subito incalzata Maria Luisa Agnese, «che magnifica eterogenesi dei fini: ci volevi tutte zitelle ed ecco che hai fatto accasare una delle più brave»…
«Che bella chiacchierata», aveva commentato lei — sul naso gli occhiali aranciorosati per vederci bene fino in fondo — orgogliosa del suo potere alchemico.

Ragazza ligure, cronista, straordinaria intervistatrice (uno dei suoi direttori, Claudio Sabelli Fioretti, l’aveva rimproverata passando a salutarla: era il tuo talento, non avresti dovuto fare altro), attivista e femminista, Luisa Pronzato — incredibilmente, perché la verità è che non ci crediamo ancora — non è più in giro da qualche parte in via Solferino, nascosta dal suo zaino sproporzionato rispetto alla schiena magra sempre indolenzita, non manderà più mail alle 4 di notte, né messaggi whatsapp così carichi di refusi da ricordare la stele di Rosetta: da decifrare, lettera per lettera, fino – a volte – alla resa.

Raccontarla intera è impossibile, perché aveva fatto sua la lezione di Marguerite Yourcenar nelle conversazioni raccolte in «Ad occhi aperti»: attraversare tutti i mondi possibili senza farsi catturare.
Non chiusa e refrattaria. Al contrario: spalancata a tutto, a tutte e tutti, ma sempre indipendente, impossibile da addomesticare.
Inadatta ad aderire a un’ideologia come a una sola compagnia.

Sapeva far combaciare un lato di sé con ogni tratto del paesaggio umano che incontrava. Entrava, si intrufolava nei vicoli, metteva le sue tende colorate nel tuo cortile, seminava regali.

Arrabbiatissima quando si arrabbiava, ballerina di tarantella e twist nei momenti di allegria, instancabile entusiasta, intelligente e affamata di intelligenze.

E soprattutto: libera. Libera, libera, tre volte libera.

Potremmo raccontare la Luisa della @27ora, che undici anni fa abbiamo avviato con il desiderio di rompere le righe, spalancare le finestre dei luoghi comuni e delle frasi fatte, generare una rete delle reti tra donne e donne, donne e uomini. Oppure quella delle otto edizioni del Tempo delle Donne, di cui era mente e motorino.

E tuttavia sarebbe sempre e solo una piccola parte, tutt’intorno c’è un bosco di storie con lei al centro, con lei al telaio a far fiorire contaminazioni.

Le colleghe e i colleghi storici di Sette, quelli dei tanti eventi del Corriere che passavano e ripassavano da lei quando arrivava il momento di andare in scena, quelli di Cuore, i compagni di banco alla Asl di Genova, i gruppi che ebbero la fortuna di averla come guida turistica.

E poi artisti e artiste, artigiani e artigiane, intellettuali (per fortuna qui posso usare un solo plurale, perché rassegnarsi all’unicità del maschile era da cartellino rosso con lei), scienziate e scienziati.

Per non lasciar fuori niente e nessuno, la sua casa digitale, @La27ora, è aperta a chi vuole raccontarla. Faremo quello che lei ha fatto per noi e per anni: caricheremo ogni ricordo che approderà all’indirizzo 27ora@corriere.it.

Succederà, speriamo, quello che è accaduto nelle ultime settimane dentro/fuori il recinto elastico della sua casa non virtuale, quella di famiglia ad Arenzano, dove si è radunata ogni giorno una piccola folla di amiche e amici in coda per Luisa.

Grati alla forza di Paola, sorella minore, libellula dallo stesso cognome.
E accolti da una tavola imbandita che avrebbe addolcito la condivisione del dolore. E dell’amore.

A proposito di @27ora, così si propose Luisa Pronzato quando aprimmo quello che era un blog e sarebbe diventato un Paese, il 9 marzo 2011.

«Alla mia età, molte fanno il lifting. Io mi sono gettata nell’online. Intrigata, soprattutto, da idee e creatività che ruotano attorno all’impalpabile byte. Urticata dalla Rete, resto una deficiente digitale, senza sensi di colpa per il gap con i trentenni ma propensa a indagare filosofie e aperture dello zero punto due. Credevo che noi ragazze (e soprattutto le nuove generazioni) ce l’avessimo fatta: diverse, certo, dagli uomini, ma diverse come qualsiasi individuo. E invece ho l’impressione che si sia tornate a essere “sesso debole”… Allergica ai moralismi, mi ritrovo a indignarmi perfino di una vetrina fatta da manichini con mutande e calzoni abbassati. Per fortuna mi indigno pure di altro. Sono, con orgoglio, lo stereotipo della zitella (lascio ad altre i doveri della single). Pasionaria, non rinuncio agli entusiasmi. Fotografo per esercitare occhio e mente e continuare a raccontare».

Il nostro racconto, il nostro viaggio insieme continua, non disperderemo le tracce, ma non sarà mai abbastanza.

«Sto sudando come una dannata… qui mi hanno dato pure il lirico. Lavoro vitale per domattina. Prendi bozzone inizio. Prendi listone titoli di lavoro. E cerchi ci capire se tra proposte colleghe e listone attuale c’è qualche cossesdione».

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