Anne Frank, i dubbi sulla ricostruzione del «tradimento»

Anne Frank, i dubbi sulla ricostruzione del «tradimento»

di ELENA TEBANO

Dubbi sulla tesi, formulata da un team di ricercatori, che ad Amsterdam fosse stato un notaio ebreo a indicare ai nazisti il nascondiglio della ragazza e dei suoi famigliari

Il 16 gennaio il «Cold Case Team», un gruppo di ricerca interdisciplinare guidato dal giornalista olandese Pieter van Twisk, dal regista Thijs Bayens e da un ex agente dell’Fbi, Vincent Pankoke (e finanziato in parte dal comune di Amsterdam), ha reso noto di aver trovato il «traditore» di Anne Frank, l’adolescente tedesca diventata in tutto il mondo il simbolo dello sterminio nazista degli ebrei grazie al suo Diario pubblicato postumo, in cui descrive i 761 giorni passati con la sua e un’altra famiglia in un sottotetto di Prinsengracht 263 di Amsterdam nel tentativo di sfuggire all’Olocausto. Il nascondiglio fu scoperto dai tedeschi il 4 agosto 1944, Anne Frank e gli altri sette ebrei nascosti furono arrestati e la ragazza fu portata a Bergen-Belsen. Della sua famiglia solo il padre Otto sopravvisse ai campi di concentramento nazisti e in seguito pubblicò il Diario. Dopo un’indagine durata 5 anni Van Twisk, Bayens e Pankoke sostengono di aver identificato «con l’85% di probabilità» colui che ha rivelato ai nazisti dove era nascosta Anne con i suoi familiari: sarebbe stato il notaio Arnold van den Bergh, ebreo al pari dei Frank, nella speranza di ottenere l’immunità per sé e la sua famiglia, come ha raccontato il «Corriere». La loro «scoperta» è stata documentata in una puntata della trasmissione giornalistica 60 Minutes sul canale americano Cbs e in un bestseller, Il tradimento di Anne Frank, scritto come un thriller dall’autrice canadese Rosemary Sullivan e già tradotto in 13 lingue, tra cui l’italiano (nel nostro Paese lo ha pubblicato HarperCollins). Ora però si moltiplicano i dubbi sui risultati dell’indagine. Tanto che la casa editrice Ambo Anthos di Amsterdam si è scusata per la pubblicazione.

L’editrice Tanja Hendriks ha scritto in una mail interna che sarebbe stato necessario un «atteggiamento più critico» e che per il momento non verrà stampata la seconda edizione del libro, in attesa — riporta la «Süddeutsche Zeitung» — di una risposta della squadra di ricercatori «alle domande che sono sorte». Infine si è scusata con tutti coloro che si sono sentiti offesi dal libro.

Quali siano le domande e i dubbi lo spiega il settimanale tedesco «Spiegel»: «Arnold van den Bergh, come la sua famiglia, non si era già nascosto nel 1944? E se era in clandestinità, perché avrebbe dovuto consegnare gli indirizzi alla Gestapo? Perché un clandestino, sottolinea Pankoke, sarebbe stato tanto più vulnerabile e ricattabile se fosse stato scoperto. Ma lo Judenrat (il consiglio degli ebrei di Amsterdam, ndr) ha mai tenuto queste liste? Gli studiosi lo ritengono improbabile, date le circostanze storiche. Nessuno ha mai visto una tale lista. Anche Mirjam Bolle, ex segretaria dello Judenrat, contraddice questa ipotesi. La centoquattrenne ora vive a Gerusalemme, usa un telefono cellulare e la posta elettronica, ha una memoria chiara e dice, in risposta a una domanda dello “Spiegel”: “Non c’erano liste”. Punto». Lo storico e giornalista Sytze van der Zee, che si è occupato a lungo del collaborazionismo degli ebrei in Olanda durante la seconda guerra mondiale e ha fatto da consulente sul tema per la loro indagine, ha sollevato dubbi sulla ricostruzione del Cold Case Team e del libro di Sullivan. Tra gli elementi che Van der Zee giudica infondati c’è l’aver escluso dalla lista dei possibili delatori la collaborazionista ebrea Ans van Dijk, giustiziata nel 1948 per crimini contro l’umanità.

La pronipote del notaio Arnold van den Bergh, Elise Tak, 64 anni,un’artista che vive tra Brooklyn, negli Stati Uniti, e Amsterdam, è più netta: «Ora lo stereotipo dell’ebreo traditore è tornato nel mondo. Puoi provare a contraddirlo, ma rimarrà. E contribuisce all’odio verso gli ebrei in tutto il mondo» dice. «L’intera famiglia di mia madre è stata spazzata via all’epoca. Entrambi i genitori, i nonni, suo fratello. Tutti. Solo mia madre e sua sorella sono sopravvissute perché lo zio Nol le ha protette. Ecco perché esisto. Non conta?», aggiunge, intervistata dallo «Spiegel».

Pieter van Twisk ammette che le prove del suo Cold Case Team «non reggerebbero in nessun tribunale». Ma a sostegno della sua tesi mostra la nota anonima che incolpa «A. van den Bergh» ed è stata recapitata dopo la guerra a Otto Frank. All’epoca furono indagati circa 400 mila casi di collaborazionismo con i nazisti e la nota, ora conservata negli archivi della città di Amsterdam, era finita in possesso del discendente di un poliziotto che fu assegnato al caso nel 1963. Ovviamente una nota anonima non è nemmeno lontanamente una prova.

La polemica e le scuse dell’editore mostrano con chiarezza la difficoltà storica e culturale che abbiamo nel rapportarci alla Shoah e anche all’antisemitismo. Il falso stereotipo dell’«ebreo traditore», a cui allude la nipote del notaio «accusato», certamente esiste ed è stato usato anche dai nazisti e dai fascisti per giustificare la persecuzione degli ebrei. Questo, ovviamente, non esclude le responsabilità di singoli ebrei o ebree che possono aver collaborato con i nazisti nel tentativo di ricavarne vantaggi personali o semplicemente per scampare alla morte: una delle conseguenze dei crimini contro l’umanità è che costringono chi ne è vittima a scelte impossibili. Ma la responsabilità è sempre individuale: non può essere imputata a un intero popolo. Al contempo la Schadenfreude con cui è stata in alcuni casi accolta la tesi del notaio ebreo presunto traditore dimostra «che c’è un mercato per queste storie», come scrive lo «Spiegel»: l’antisemitismo diffuso e più o meno latente trova nel libro la possibilità di incolpare le vittime, confermando i propri pregiudizi.

Il problema infine sta anche in un altro mercato, quello editoriale. Il Cold Case Team e l’autrice del libro hanno deciso di raccontare l’indagine su fatti storici come se fosse un poliziesco. Pieter van Twisk dice che «Anne Frank, Fbi, intelligenza artificiale» (quest’ultima è stata usata per analizzare i dati sul caso) è «una combinazione su cui tutti si sono avventati immediatamente». Erano «merce» preziosa. Il linguaggio da poliziesco ha reso ancora più vendibile tutto questo materiale incandescente. Ma i polizieschi hanno bisogno di identificare un colpevole, di addossare a una persona la colpa del crimine di cui si occupano, dividendo nel contempo il mondo in buoni e cattivi, senza spazio per la complessità. Una cosa che non ha niente a che vedere con la ricostruzione storica. Le logiche del poliziesco impongono la gabbia della semplificazione sul peggior crimine della storia. È questa semplificazione a essere offensiva. Nei confronti delle vittime e di chiunque abbia a cuore la ricerca della verità.

2 febbraio 2022 (modifica il 2 febbraio 2022 | 12:08)

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Iscrizioni scuola 2022-23, si arresta la fuga dagli istituti tecnici

Iscrizioni scuola 2022-23, si arresta la fuga dagli istituti tecnici

Dopo anni di emorragia di iscritti, si ferma la fuga dagli istituti tecnici e professionali, mentre per la prima volta le iscrizioni ai licei subiscono una battuta d’arresto, anche se restano i preferiti dai 14enni italiani e dalle loro famiglie, visto che vengono scelti dal 56,6% dei ragazzi (un anno fa erano il 57,8%). Continua invece la crisi del Liceo classico, scendono anche gli iscritti allo Scientifico tradizionale, mentre continua il successo dell’indirizzo con l’informatica al posto del latino. Ecco, nel dettaglio, i dati sulle iscrizioni a scuola nel 2022-23 pubblicati dal Miur.

4 febbraio 2022 | 12:40

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Vitaliano Trevisan, l’inedito: viviamo in un «dopo» senza un «prima»

Vitaliano Trevisan, l’inedito: viviamo in un «dopo» senza un «prima»

di VITALIANO TREVISAN

Esce martedì 8 febbraio per Einaudi Stile libero un’edizione ampliata di «Works», che lo scrittore veneto suicidatosi un mese fa pubblicò nel 2016. Anticipiamo un brano del testo inedito «Dove tutto ebbe inizio. Works-non-works»

Non ho nostalgia per il passato. Mai avuta, nemmeno da giovane. Sono così veloce a dimenticare cose, procedure, persone. Come se avessi in testa un interruttore. In un altro senso, non dimentico nulla, e la mia testa è un magazzino pieno di notizie utili. Il mio territorio, di cui ho vissuto la trasformazione, è ormai irriconoscibile. Non posso però dire di essere «spaesato»; al contrario: è una trasformazione che ho vissuto, a cui, vivendo e lavorando qui, ho fattivamente contribuito, cosa del resto inevitabile. Il fatto è che «il prima» è durato troppo poco per fissarsi come parametro definitivo. Così è per i nati nel periodo del cosiddetto boom economico, a prescindere dalla loro classe sociale. Il Veneto rurale è per me il ricordo di un ricordo, qualcosa che è passato attraverso i miei genitori, ma che non ho mai davvero vissuto. Credo valga per tutta la mia generazione. Grande differenza, rispetto ai nati prima o durante la guerra. Il primo carro armato americano con la stella, e poi il dopo, il lungo dopo, fino a oggi — cito a memoria il Parise dei Sillabari. Io, noi, siamo quelli del lungo dopo fino a oggi. E per tutto il dopo la betoniera non si è mai fermata. I marchi politici sono cambiati, esplosi rottamati e svenduti come tutto il resto.

Anche il Lavoro, scritto con la l maiuscola in quanto concetto, è a suo tempo esploso e si è frammentato: non più grandi fabbriche, ma capannoni, piccoli e medi, con abitazione inclusa, ma spesso anche case con laboratorio al piano terra, e abitazione al primo. La fase della mia infanzia, quando le case degli orafi, con laboratorio appunto al piano terra, sorgevano casuali, punteggiando le nuove aree di espansione residenziale, mimetizzate tra le case di abitazione, ma facilmente riconoscibili: recinzioni più alte, pesanti grate alle finestre, portoni blindati, terrazze ingabbiate, cani da guardia addestrati in giardino, dei veri e propri fortini; poi la fase dei condomini, delle villette a schiera e delle zone artigianali, quella dell’adolescenza e della prima giovinezza. E infine la maturità, ovvero l’età dei centri commerciali, delle rotatorie, delle piste ciclabili eccetera, fase ancora in corso ma che, grazie alla crisi, ha subito un rallentamento, ma è ben lungi dall’essere esaurita, giacché, al presente, nuove tangenziali e superstrade incombono, mentre le porzioni di campagna, inesorabilmente frazionate e ridotte a isole più o meno grandi, non sembrano aspettare altro che di essere opportunamente «valorizzate». La pressione dell’urbanizzazione si avverte altrettanto fisicamente di quella atmosferica. L’erosione è costante e inesorabile.

Il vuoto politico è sempre stato una costante, ma anziché essere riempito, come all’inizio, dall’iniziativa di una famiglia di industriali più o meno illuminati, viene democristianamente invaso da una nuova stirpe di pseudotecnici che, nel rispettabile ruolo di intrallazzatori, assecondano il cieco e brutale e rozzo «vitalismo», ormai divenuto un mito stabile che in molti si impegnano a tener vivo, approntando piani urbanistici che, già a monte privi di ogni vera sapienza urbanistica, vengono poi periodicamente «integrati», e ulteriormente sviliti, dalle inevitabili «varianti». Nel frattempo, l’impianto originario del paese, che nella sua artificialità comunque si teneva intorno al «lavoro», decade lentamente, quasi inavvertitamente, seguendo il decadimento della fabbrica. Curioso come, esso decadimento, segua in modo tanto evidente, e con perfetto tempismo, dinamiche corrispondenti a precise epoche storiche e per niente localistiche. Prima, nella seconda metà dell’Ottocento, il padrone, una persona fisica, che con intraprendenza e rischio personale, impianta e gestisce la fabbrica, determinando e indirizzando al contempo, in modo diretto, anche lo sviluppo del paese; poi un gruppo di manager che, rappresentando un padronato astratto, si limitano a gestire parassitariamente il lavoro altrui, ma restano comunque in qualche modo legati al territorio su cui la fabbrica insiste, territorio su cui esercitano il proprio potere «selezionando» la forza lavoro, ma su cui non agiscono più direttamente, ovvero: niente più case operaie, condomini per impiegati, asili, scuole e meno che mai teatri; infine, con l’acquisizione della Sivi da parte della grande multinazionale americana General Electric, e conseguente decentramento del potere, che si distacca totalmente dal luogo fisico, l’inesorabile spegnimento, attraverso la progressiva delocalizzazione di ogni attività produttiva, successiva trasformazione della fabbrica in centro logistico, e infine totale dismissione di ogni attività; il tutto nel giro di circa dieci anni.

La chiusura definitiva fu un trauma per molti. Non per chi scrive, anzi, devo ammettere che ne fui addirittura contento. Forse contento è troppo, ma non posso negare una certa sottile, interna soddisfazione. Quella specie di fottuta grande famiglia, che a suo tempo mi aveva rifiutato, chiudeva i battenti e lasciava a spasso tutti quegli operai e quegli impiegati che incontravo ogni giorno in paese, e in parte conoscevo personalmente, sempre pronti a lamentarsi per questo o per quello, ma al tempo stesso così sicuri del loro lavoro, del fatto che mai sarebbe venuto a mancare, come se lavorare in quella cazzo di fabbrica equivalesse a un lavoro statale. Avevo sempre l’impressione che mi guardassero e mi parlassero con una certa condiscendenza, come se fossi un animale strano, visto che io un lavoro sicuro non l’avevo, e anzi continuavo a cambiarne uno dopo l’altro, senza mai riuscire a tenerne nessuno. A pensarci bene, non era affatto una mia impressione, ma semplicemente un atteggiamento naturale, per quanto inconscio, degli uomini e delle donne che appartengono interamente, senza rendersene conto, a un’impresa industriale, a una cooperativa, un sindacato o all’apparato statale, e sono dunque «dentro» a tutti gli effetti, e perciò in certo qual modo in pace, al riparo dai conflitti, nel momento in cui vengono in contatto con noi, che non siamo né dentro né fuori, perché, pur non volendo esser «dentro», non ci è comunque possibile essere del tutto «fuori», dato che un fuori non esiste, ma appartenendo a un’idea — nel nostro caso a un’idea di letteratura, a cui ora, dopo esserci nel frattempo circumnavigati, ovviamente non crediamo più, pur continuando comunque a perseguirla con cieca ostinazione — e non a un qualsivoglia gruppo di lavoro, siamo condannati a essere perennemente in contrasto, e di conseguenza perennemente preda della nevrosi e del conflitto, in una società che legittima pienamente solo chi si adatta, e si abbandona all’inevitabile inerzia, così come essa si configura in un Paese industriale che produce benessere, condizione che finisce per assorbire, o essiccare, ogni possibile fonte di cambiamento, sia generale che individuale. Del tutto incomprensibile per chi scrive, abituato a cambiare lavoro continuamente, la stolida inerzia con cui un cosiddetto zoccolo duro di qualche centinaio di operai e di impiegati si tenevano aggrappati, contro ogni evidenza, all’idea che la fabbrica, nonostante tutto, avrebbe continuato la sua attività. I più svegli se n’erano andati da tempo. Che gli «americani», cioè la General Electric, avessero comprato per chiudere, e che fosse solo questione di tempo, era in realtà chiaro a tutti fin dall’inizio.

Ogni successiva mossa dell’azienda confermava l’evidenza. Eppure, furono in molti a tenere duro fino alla fine e, grazie alla cassa integrazione, anche oltre la fine. Sembra una sindrome comune alla maggioranza degli umani che lavorano in fabbriche grandi abbastanza da dare l’idea di essere eterne. E poi c’è l’abitudine: tutti i giorni la stessa strada, gli stessi orari, la stessa rotazione degli orari, le stesse macchine, gli stessi gesti, le stesse persone, gli stessi periodi di ferie, per anni, anzi per decenni. Una prospettiva che, personalmente, mi ha sempre fatto accapponare la pelle; però, mettendomi nei loro panni, certamente rassicurante. Ma se poi non si arriva alla fine del ciclo, cioè alla pensione, se è la fabbrica, quell’organismo che si dà per scontato, quasi fosse un prodotto della natura, a finire il suo ciclo, e ci si rende conto di essere troppo giovani per essere pensionati in anticipo, e ci si sente, e spesso si è troppo vecchi per ricominciare da capo da un’altra parte, anche l’inerzia diventa comprensibile.

Il libro

Works. Edizione ampliata

di Vitaliano Trevisan esce martedì 8 febbraio, per Einaudi Stile libero (pp. 696, e 22). La nuova versione del libro, che era apparso nel 2016, contiene l’inedito Dove tutto ebbe inizio. Works-non-works, pubblicato alla fine della nuova edizione per espresso desiderio dell’autore. Lo scrittore (Sandrigo, Vicenza, 12 dicembre 1960 – Crespadoro, Vicenza, 7 gennaio 2022), dimesso da un reparto psichiatrico, si è tolto la vita dopo pochi mesi. Tra il 2006 e il 2009 aveva realizzato 4 regie teatrali ed era stato attore in 14 produzioni, tra film per il cinema e serie televisive. In Works Trevisan ripercorre i propri mestieri : lattoniere, spacciatore di acidi, portiere di notte. Tra i suoi libri: Un mondo meraviglioso (Theoria, 1997, poi Einaudi Stile libero), Trio senza pianoforte (Theoria, 1998), Shorts (Einaudi Stile libero, 2004, Premio Chiara) , Worsdstar(s) (Sironi, 2004), Il ponte, un crollo (Einaudi Stile libero, 2007), Due monologhi (Einaudi), Tristissimi giardini (Laterza, 2010), Una notte in Tunisia (Einaudi, 2011), Il delirio del particolare (Oligo, 2020)

6 febbraio 2022 (modifica il 6 febbraio 2022 | 11:10)

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Il sondaggio sui partiti: Pd primo con il 20,8%

Il sondaggio sui partiti: Pd primo con il 20,8%

di Nando Pagnoncelli

I dati Ipsos: l’indice di gradimento di Draghi resta a quota 59, la leader di Fratelli d’Italia sale a 37 e scavalca Conte. Per il 39% degli italiani tra i leader politici Salvini è quello che è uscito peggio dal voto per il Quirinale

I sondaggi realizzati alla vigilia delle votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica avevano evidenziato una prevalente domanda di continuità rispetto allo status quo: la maggioranza dei cittadini auspicava la rielezione di Mattarella e la prosecuzione del governo Draghi. Non stupisce quindi che il 52% si dichiari soddisfatto dell’esito, mentre uno su tre (36%) non lo sia. Il gradimento «a caldo» risultava ancora più elevato, e rappresentava una sorta di reazione di sollievo per il risultato raggiunto a fatica; oggi le opinioni sono più articolate e tra gli insoddisfatti sono compresi anche coloro che sono fortemente critici riguardo alle controverse sette votazioni che hanno preceduto la rielezione. La soddisfazione prevale tra tutti gli elettorati con l’eccezione di quello di FdI che per il 63% si dichiara insoddisfatto.

(Il Corriere ha una newsletter dedicata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Si chiama Diario Politico, è gratis, e per iscriversi basta andare qui )

Molti commentatori ritengono che per la politica si sia trattato di una sonora sconfitta, e il 45% degli italiani è di questo parere, ma il 30% mostra un atteggiamento meno severo, nella convinzione che una larga parte dei grandi elettori, indicando fin dalle prime votazioni il nome di Mattarella contrariamente a quanto indicato dai leader di partito, abbiano mostrato autonomia di giudizio e favorito un processo «dal basso» mettendo fine allo scenario di stallo che si era determinato. Insomma, una sorta di riscatto del Parlamento che ha determinato un ravvedimento dei capi partito. Resta il fatto che, nonostante le aspettative dei cittadini (la stragrande maggioranza dei quali ritiene che il capo dello Stato debba avere un ruolo super partes di garante dell’unità nazionale) e, soprattutto, nonostante l’oggettiva assenza di una maggioranza in un Parlamento (che risulta composto da più minoranze), per una settimana sono in larga misura prevalsi i tatticismi e gli interessi di bottega.

Non ci sono vincitori

Ne consegue che secondo gli italiani da questa vicenda non emerge in misura netta un vincitore tra i leader (Meloni 16%, Letta 14%)

, dato che il 36% ritiene che non ve ne siano e il 20% non si esprime, mentre risulta più evidente chi ne è uscito peggio: Salvini viene menzionato dal 39% e precede Conte (19%), Giorgia Meloni (16%), Berlusconi (13%) ed Enrico Letta (12%).

I pareri si dividono sui riflessi che la rielezione di Mattarella avrà sul governo: infatti il 38% ritiene che ne uscirà rafforzato, soprattutto in virtù della sintonia tra il premier e il presidente della Repubblica e a seguito del momento difficile che le forze politiche stanno vivendo; al contrario il 37% ritiene che l’esecutivo rischi di indebolirsi perché i partiti, finiti nell’angolo, saranno ancor più in competizione tra loro e rallenteranno i processi di riforma. E, a proposito di competizione, la vicenda Quirinale ha avuto riflessi sugli orientamenti di voto e sul gradimento dei leader: rispetto alla scorsa settimana la Lega perde l’1,7%, si attesa al 18% e viene scavalcata al secondo posto da FdI con il 19,3% (-0,2%), mentre il Pd guadagna lo 0,8% e consolida la posizione di testa con il 20,8%. Al quarto posto si conferma il M5S con il 15,5% (-0,4%) seguito da Forza Italia che cresce di 0,6% portandosi al 9,8%. Tra le altre forze politiche si segnala la crescita della Federazione Azione/+Europa (3,9%) e Italia viva (2,2%). Come era prevedibile, aumenta la quota degli astensionisti e degli indecisi che raggiunge il 41,5%, due punti in più rispetto a dicembre.

Sulla base di queste stime, i tre principali partiti del centrodestra nell’insieme si collocano al 47,1% e continuano a mantenere un netto vantaggio sia sul centrosinistra (31,6%) sia sull’alleanza giallorossa (39,2%), ma vengono appaiati da una ipotetica alleanza comprendente tutte le forze di sinistra e centrosinistra.

Il gradimento dei leader

Quanto al gradimento dei leader Giorgia Meloni è in crescita di due punti (indice 37)

e conquista la prima posizione scavalcando Conte che cala di 4 punti (36). Al terzo posto Speranza, stabile a 32, seguito da Letta che aumenta di due (30), quindi Toti (stabile a 27) e Salvini (26) che perde tre punti e due posizioni nella graduatoria. Anche l’indice di gradimento del governo (56) diminuisce di 2 punti rispetto alla settimana scorsa e di 3 rispetto a dicembre, riportandosi sui valori più bassi del mandato, mentre il presidente Draghi è stabile a 59, il valore più elevato a un anno dall’insediamento rispetto a tutti i premier che l’hanno preceduto, con l’eccezione di Conte 2.

E, ancora, in vista delle elezioni del 2023 le prospettive di partiti e coalizioni appaiono davvero incerte agli occhi degli elettori, infatti il 44% è persuaso che il centrodestra dopo le profonde divisioni di queste settimane si presenterà unito all’appuntamento elettorale (ma gli elettori di FI, Coraggio Italia e Noi con l’Italia paiono più tiepidi); il 43% si aspetta una scissione all’interno del M5S (è di questo parere anche il 45% dei pentastellati); il 42% prevede che Pd, Movimento 5 Stelle e le altre forze della sinistra si presenteranno coalizzati (ci credono di più gli elettori M5S che i dem) e, da ultimo, la possibilità che nasca una coalizione di centro che raggruppi FI e le formazioni minori di centrodestra e centrosinistra viene vista in modo non univoco: il 34% la giudica probabile mentre il 36% è di parere opposto e il 30% non si esprime.

Tutto è bene quel che finisce bene? Sembrerebbe di sì, tenuto conto della auspicata continuità, ma la delusione su come si sia giunti a questo risultato è palpabile e affiorano non pochi interrogativi sulla possibile ulteriore disaffezione dei cittadini rispetto ai partiti e, in generale, alla politica. D’altra parte, ci si chiede perché di fronte ai 55 applausi dei grandi elettori che, come un metronomo, hanno scandito il discorso di Mattarella nel giorno del giuramento, gli stessi parlamentari nella settimana del voto abbiano indugiato nel rieleggerlo, si siano impantanati in sette votazioni andate a vuoto e abbiano messo in scena uno spettacolo poco commendevole. Forse la risposta la troviamo in Sant’Agostino: ex malo bonum, ma è difficile che gli elettori se ne facciano una ragione.

5 febbraio 2022 (modifica il 5 febbraio 2022 | 10:13)

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Claudio Gioè, l’amore finito con Pilar Fogliati e i social

Claudio Gioè, l’amore finito con Pilar Fogliati e i social

Lunedì 7 febbraio in prima serata su Rai 1 prende il via la seconda stagione di «Màkari», la fortunata serie diretta da Michele Soavi tratta dalle opere di Gaetano Savatteri. Saranno tre le serate in programma, che vedranno ancora una volta protagonista Claudio Gioè nei panni di Saverio Lamanna, scrittore ma anche investigatore per passione. L’attore, nato a Palermo il 27 gennaio 1975, ha iniziato la sua carriera in teatro. «Al liceo classico, a Palermo, partecipai a un corso di teatro e decisi di continuare – ha raccontato al settimanale Grazia –. Ma in Sicilia non esistono scuole di recitazione, così provai a entrare all’Accademia d’arte drammatica a Roma. Incredibilmente venni preso e cominciai a lavorare con entusiasmo, fondando anche una piccola compagnia. Ma con il teatro non guadagnavo abbastanza per pagare i colleghi, così ho cominciato a fare provini al cinema e in tv».

7 febbraio 2022 | 07:37

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