Criptovalute in Africa: dopo Nigeria e Ghana, il Kenya adotta la sua moneta digitale
di Giulia Cimpanelli Diversi paesi africani stanno lanciando criptovalute per arginare l’utilizzo di Bitcoin ed Ethereum. Un vantaggio anche per la popolazione: il 57% non accede a servizi bancari
Che lo facciano per arginare il boom delle criptovalute come Bitcoin ed Ethereum nei loro Paesi, o per “sostenere” le loro difficili situazioni economiche non è ancora chiaro. Forse Banche centrali e governi di diversi stati africani decidono di istituzionalizzare valute digitali per ovviare in parte a entrambi i problemi. Dopo la Nigeria e il Ghana, infatti, ora anche le banche centrali di Kenya e Zambia stanno pensando di adottare una criptovaluta.
Lo scorso ottobre la Nigeria è diventato il primo paese in Africa a lanciarne una, eNaira. Mentre il Ghana sembra essere già in fase avanzata per il lancio di e-cedi. Le CBDC (central bank digital currency), a differenza delle criptovalute come Bitcoin ed Ethereum, sono sviluppate dalle banche centrali e ancorate alle valute legali dei paesi. Secondo uno studio di “Statista”, la Nigeria – che rappresenta la prima economia africana – è il terzo Stato al mondo per trading di criptovalute “classiche” dopo Stati Uniti e Russia. Alla luce di questi dati la mossa del governo può essere interpretata come il tentativo di arginare il ricorso a mezzi di pagamento che sfuggono al controllo dei regolatori. Ma la Nigeria non è il solo Paese africano advertisement aver registrato un boom nell’utilizzo delle criptovalute, dettato in questo Continente anche dalla debolezza delle monete locali e dai sistemi politici e bancari instabili, dalle restrizioni finanziarie e dalla carenza di fiducia nelle istituzioni nazionali. Inoltre, circa la metà della popolazione africana non ha ancora accesso ai servizi bancari: questo rende pagamenti elettronici e trasferimento di denaro con le criptovalute una grande opportunità.
Per la Banca centrale del Kenya la moneta elettronica ha aiutato il paese a migliorare l’accesso ai servizi finanziari. Secondo dati ufficiali sono già 38 milioni le persone in Kenya advertisement aver effettuato transazioni per un totale di 55 miliardi di dollari durante i primi 11 mesi dello scorso anno.
11 febbraio 2022 (modifica il 11 febbraio 2022|12:22)
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Disoccupati? Un’indennità per loro se fanno volontariato
di Paola D’Amico
BiCom e Csv Belluno Treviso promuovono un’iniziativa per persone senza lavoro. Dal 2015 ha già coinvolto 160 uomini e donne provenienti da commercio, turismo e servizi. Il progetto Vips integra l’indennità di chi dedica un monte ore a fragili e disabili. La testimonianza di alcuni di loro: «L’energia di quei ragazzi ti cambia la vita»
Diego Brozzola aveva 45 anni quando il supermercato dove lavorava come banconiere l’ha lasciato a casa. Non s’è perso d’animo. E mentre studiava per diventare Oss (operatore socio sanitario), si è trovato quasi per caso a fare il volontario a Casa di Michela, un centro diurno di Treviso per ragazzi disabili. «Ero seduto in coda al sindacato, poco dopo il licenziamento, quando leggo un progetto interessante, “Vips-vicinanza, prossimità, sostegno”, che integra l’indennità di disoccupazione e in cambio – racconta – ti chiede di fare un tot ore di volontariato. Ho pensato che era utile tenermi occupato, per non cadere in depressione. Ora che quella esperienza è terminata aggiungo che in quei due anni sono rinato. Se al super eravamo numeri, peggio che rotelle in una catena di montaggio, l’energia dei ragazzi e la loro umanità mi hanno cambiato la vita».
Progetto Vips compie sei anni. Lo hanno siglato nel febbraio 2015 EBiCom (Ente Bilaterale Territoriale della provincia di Treviso) e Volontarinsieme Csv Treviso, oggi Csv Belluno Treviso. L’obiettivo di avvicinare volontariato e imprese, così da fornire occasioni di inserimento e riqualificazione nel mondo del lavoro ai lavoratori disoccupati che percepiscono i sussidi, è stato raggiunto. Vips è diventato uno strumento di politica attiva, un modello da esportare. Ne è testimone anche Daniela Arezzi, 34 anni, «vittima» del commercio online: «Mi sono trovata a piedi dopo 11 anni. Certo avevo l’indennità di disoccupazione ma la parola stessa non dà la felicità. Ho colto la palla al balzo quando tramite Confcommercio ho saputo del progetto Vips. Ho pensato che era una strada per rimettersi in gioco e ho scelto un centro diurno per ragazzi disabili e poi partecipato al progetto Auser-Cittadini del mondo, insegnando l’italiano agli stranieri. Adesso ho svoltato. Lavoro in una comunità alloggio a Santa Bona. E tutto quello che ho imparato da volontaria, oltre ad avermi permesso di elaborare il lutto della disoccupazione, a vedere un po’ di luce in fondo al tunnel, mi sta tornando utile. È importante a 34 come a 50 anni sapere che c’è un’alternativa».
Vips ha già coinvolto 160 lavoratori provenienti da commercio, turismo e servizi, che hanno dedicato oltre 28mila ore di servizio in attività educative e animazione, nel supporto gestionale, nel trasporto sociale. E tutti hanno dimostrato di aver migliorato le proprie competenze nel lavoro di gruppo, sia nel comunicare con gli altri in modo efficace sia nella capacità di risolvere i problemi.
Michele Grava, 50 anni, oggi capo ricevimento in un hotel, ha dedicato il suo tempo quando era in disoccupazione ai senzatetto con la Comunità di Sant’Egidio di Treviso. E Roberta Dametto, 46 anni, rimasta a casa dopo la chiusura della tabaccheria di famiglia, si è messa alla prova con gli ospiti della Cooperativa Solidarietà e oggi è tutor di una tredicenne disabile.
«I risultati ottenuti ci sollecitano a far si che la collaborazione tra Csv e EBiCom possa essere modello per sperimentare inediti accordi con gli enti bilaterali – spiega Alberto Franceschini, presidente di Csv Belluno Treviso – di altri settori produttivi. Credo che potrebbe essere innovativo l’avvio di una sperimentazione dedicata a chi è prossimo alla pensione, che regoli una progressiva riduzione dell’orario di lavoro, da un lato per favorire l’inserimento dei giovani, dall’altro per promuovere lo svolgimento di attività di interesse collettivo, proprio come il volontariato».
«Questo “pezzo di cammino” – aggiunge il presidente di EBiCom Adriano Bordignon – fatto insieme ha prodotto buoni frutti, ha dimostrato che è possibile attuare politiche attive nel lavoro con vantaggi evidenti per imprese, associazioni di volontariato, lavoratori e anche le loro famiglie. L’arricchimento professionale e personale ottenuto dai lavoratori è la miglior prevenzione al disagio psichico e sociale. Purtroppo, non siamo abituati a misurare il benessere e il Pil non tiene conto di queste progettualità. volontariato».
7 febbraio 2022 (modifica il 7 febbraio 2022 | 09:51)
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La nuova vita di torri e mura: si apre al
di Marco Gasperetti
A Vicopisano in Toscana un sodalizio pubblico-privato sta valorizzando i tesori d’arte. E Andrea e Pietro Fehr nella loro celebre rocca fanno da guida ai turisti
Forse neppure lui, il grande Filippo Brunelleschi, avrebbe immaginato che, cinque secoli dopo aver realizzato la sua opera, quel piccolo ma inquieto borgo pisano, sempre al centro di guerre, assalti e saccheggi, sarebbe risorto (grazie anche alla solidarietà degli abitanti) e avrebbe usato il suo nome illustre per farsi bello e aprire le porte ai visitatori del mondo. E certamente avrebbe pensato che il destino è più beffardo di un menestrello canzonatore. Il motivo? Le meraviglie che lui aveva costruito avevano il compito di blindare quel paese e non di aprirlo alla curiosità dei molti. Già, perché la Rocca che prende il suo nome e il Camminamento del Soccorso erano stati progettati dall’architetto dei Medici per scacciare pisani e altri invasori. Siamo a Vicopisano, 8500 anime tra Arno e Monte Pisani, già antico gioiello dei pisani, in quel tratto di campagna toscana meno conosciuta eppure sempre meravigliosa. Un paese delle meraviglie sconosciuto al grande turismo che sta vivendo un nuovo Rinascimento.
La rete civica
Non solo per il capolavoro del Brunelleschi, appena restaurato e inaugurato a novembre dal ministro per i Beni Culturali, Dario Franceschini, ma per lo spirito d’iniziativa dei suoi abitanti e del piccolo municipio che li guida. Che già si erano messi in mostra vent’anni fa con le nuove tecnologie, quando nacque Viconet, la prima rete civica italiana che utilizzava un nuovo sistema wi-fi per fare utilizzare la banda larga a tutti i cittadini. Ma la bellissima notizia e che la «rete», nell’accezione più solidale del termine, i vicaresi ce l’hanno nel sangue. Così una quindicina di anni fa inizia l’esperienza di Borgo Murato, la prima Aps (Associazione di promozione sociale) specializzata del recupero storico-architettonico d’Italia. È ancora un record. «Il sodalizio – racconta il sindaco Matteo Ferrucci – realizza una sinergia tra pubblico e privato. I nostri cittadini iniziano a restaurare al meglio non solo le loro abitazioni, grazie anche agli interventi pubblici, ma anche le antiche strade, i vicoli, i camminamenti. E i “chiassi”, i suggestivi percorsi medievali che conducono il visitatore sino alla parte alta del borgo. E soprattutto negli ultimi due anni curano l’arredo urbano, valorizzano i tesori che i nostri avi ci hanno tramandato».
Comune, Provincia di Pisa e Fondazione Pisa, si uniscono a questo risveglio e partono le ristrutturazioni che si concludono (ma il termine non è esatto perché l’abbellimento di Vicopisano è costante) con il ripristino delle vecchie mura medievali pisane e della rocca del Brunelleschi. Quest’ultimo monumento, poi, racconta anche un’altra storia di solidarietà: è un bene privato oggi di proprietà dei fratelli Andrea e Pietro Fehr come eredità di un loro avo di origini svizzere che l’acquista nel ‘700. Andrea e Pietro hanno deciso di mettere il capolavoro a disposizione di tutti firmando una convenzione e organizzando visite guidate con tanto di guida. «È stato un orgoglio per la nostra famiglia ed è un piacere registrare ogni giorno un interesse crescente – dice Andrea – e poi è un esempio virtuoso di collaborazione tra pubblico e privato. Ci hanno chiamato tanti proprietari di castelli per chiederci il segreto di questa collaborazione».
La Torre dell’Orologio
Ma i lavori a Vicopisano non si fermano mai. È stata messa in sicurezza la Torre dell’Orologio, grazie alla campagna organizzata dal municipio «È ora di riaprirla» e «Adotta uno scalino», che ancora una volta ha visto l’impegno di tutti gli abitanti e il contributo della Fondazione Pisa. «Si è appena concluso il restauro della medievale Torre Malanima – spiega Fabiola Franchi l’assessore al Turismo e Associazionismo e Cultura – e stanno per partire il lavori al teatro comunale, già sede storica di una scuola musicale. Nel suo giardino sono stati trovati reperti archeologici e gli scavi continuano. A fine 2022 partirà il recupero della Chiesa di via Crucis, un complesso architettonico di grande valore che si trova sulla vetta del Colle del Mirra che domina Vicopisano». L’arte, la storia, il recupero dei tesori e l’unione dei cittadini ha dato anche un impulso al commercio. Sono nati negozi, bar, trattorie tipiche e un circolo, L’Ortaccio, dove un gruppo di giovani organizza un sacco di iniziative, feste, sagre ed eventi. Benvenuti, signori, nel borgo che messere Brunelleschi voleva blindare ed è diventato il paese più aperto d’Italia.
8 febbraio 2022 (modifica il 10 febbraio 2022 | 02:18)
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Tesoro Savoia, causa allo Stato italiano per la mancata restituzione
Prima udienza il 7 giugno, battaglia sul verbali di deposito e su una frase del futuro presidente Einaudi. Il valore del tesoro stimato in circa 300 milioni di euro
Prosegue la querelle fra i Savoia e lo Stato italiano per la proprietà dei gioielli storici del casato. L’ex casa regnante ha citato in giudizio in sede civile lo Stato per la restituzione delle «gioie di dotazione della Corona del Regno d’Italia». La prima udienza si terrà il 7 giugno ’22. Davanti al giudice siederanno in rappresentanza dei Savoia gli eredi dell’ultimo re, Umberto II, noto come il Re di maggio: il principe Vittorio Emanuele e le principesse Maria Beatrice, Maria Pia e Maria Gabriella. Le istituzioni citate che invece rappresenteranno l’Italia sono la Presidenza del Consiglio, il ministero Economia Finanze e Banca d’Italia. Il giudice chiamato a stabilire la fondatezza della richiesta dei Savoia, assistiti dall’avvocato Sergio Orlandi, sarà individuato a breve.
I gioielli sono depositati dal 5 giugno 1946 in un caveau della Banca d’Italia: un tesoro da 6.732 brillanti e 2 mila perle. Il loro valore non è mai stato stimato, ma potrebbe aggirarsi sui 300 milioni. Anche se per Gianni Bulgari, che li visionò negli anni ’60, non valgono più di qualche milione. La valutazione, attraverso una perizia, sarà uno dei temi sollevati dall’avvocato Orlandi. Il cuore della rivendicazione dei Savoia si fonda su un presupposto: i gioielli, sostiene l’avvocato Orlandi, non sono mai stati confiscati dallo Stato. Quel 5 giugno 1946 il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, incaricato da Umberto II di consegnare diademi e collane, e l’allora governatore della Banca D’Italia Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica, sottoscrivono alle 17 un verbale di deposito. Che contiene, per il legale dei Savoia, un passaggio chiave: «L’avvocato Lucifero dichiara di aver ricevuto incarico da Sua Maestà di affidare in custodia alla Banca d’Italia le gioie in dotazione della Corona del Regno d’Italia per essere tenute a disposizione di chi ne avrà diritto». Parole che non chiariscono chi un giorno potrà vantare la proprietà dei gioielli. Un’interpretazione di questa frase, rimarca l’avvocato Orlandi nell’atto di citazione, si ricava però dal «Diario 1945-1947» di Einaudi pubblicato sul sito di Bankitalia. L’allora governatore scrive a pag. 657: «Egli (il Re) desidera che le gioie siano depositate presso la Banca d’Italia per essere consegnate poi a chi di diritto. La mia impressione è (…) che potrebbe ritenersi che spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale». Dal prossimo 7 giugno questi frammenti di storia diventeranno materia processuale.
9 febbraio 2022 (modifica il 9 febbraio 2022 | 14:18)
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Ciao Luisa, libellula del «Corriere»: maestra di connessioni tra tutte
Libellula. Aveva risposto così, dall’ospedale di Voltri dove stava combattendo per una camera vista mare, alla domanda «che cos’è per te la forza? Ti fa pensare più a una tigre o a un colibrì?».
Stavamo lavorando, mentre lei fotografava l’alba attraverso la finestra, a uno dei nostri ultimi progetti. Un podcast su «un altro genere di forza», una serie a puntate che — dopo decine di incontri e interviste — andrà a chiudersi con un suo breve monologo.
E allora, Luisa, che dici: tigre o colibrì?
«Io dico libellula: non ape operosa, non farfalla».
Ali di libellula come idee battenti, parole scelte con cura, relazioni che ti tengono in volo. Connessioni, così veloci e leggere da sembrare invisibili. Ma consistenti, altrimenti ti schianteresti.
Perché Luisa Pronzato, 67 anni — giornalista fantastica, tra le migliori e i migliori che io abbia incontrato in 30 anni di Corriere della Sera — era la marchesa delle connessioni: univa i punti, univa le persone, armata solo del suo stupore autentico.
Fino a quell’ultimo sabato, sabato scorso che sembra mille anni fa, quando una collega le ha raccontato come — dopo averla conosciuta alla redazione online — avesse smesso di sognare il maschio Alfa e pensato per la prima volta a un compagno, un alleato, un sostegno. «Vedi Luisa», l’aveva subito incalzata Maria Luisa Agnese, «che magnifica eterogenesi dei fini: ci volevi tutte zitelle ed ecco che hai fatto accasare una delle più brave»…
«Che bella chiacchierata», aveva commentato lei — sul naso gli occhiali aranciorosati per vederci bene fino in fondo — orgogliosa del suo potere alchemico.
Ragazza ligure, cronista, straordinaria intervistatrice (uno dei suoi direttori, Claudio Sabelli Fioretti, l’aveva rimproverata passando a salutarla: era il tuo talento, non avresti dovuto fare altro), attivista e femminista, Luisa Pronzato — incredibilmente, perché la verità è che non ci crediamo ancora — non è più in giro da qualche parte in via Solferino, nascosta dal suo zaino sproporzionato rispetto alla schiena magra sempre indolenzita, non manderà più mail alle 4 di notte, né messaggi whatsapp così carichi di refusi da ricordare la stele di Rosetta: da decifrare, lettera per lettera, fino – a volte – alla resa.
Raccontarla intera è impossibile, perché aveva fatto sua la lezione di Marguerite Yourcenar nelle conversazioni raccolte in «Ad occhi aperti»: attraversare tutti i mondi possibili senza farsi catturare.
Non chiusa e refrattaria. Al contrario: spalancata a tutto, a tutte e tutti, ma sempre indipendente, impossibile da addomesticare.
Inadatta ad aderire a un’ideologia come a una sola compagnia.
Sapeva far combaciare un lato di sé con ogni tratto del paesaggio umano che incontrava. Entrava, si intrufolava nei vicoli, metteva le sue tende colorate nel tuo cortile, seminava regali.
Arrabbiatissima quando si arrabbiava, ballerina di tarantella e twist nei momenti di allegria, instancabile entusiasta, intelligente e affamata di intelligenze.
E soprattutto: libera. Libera, libera, tre volte libera.
Potremmo raccontare la Luisa della @27ora, che undici anni fa abbiamo avviato con il desiderio di rompere le righe, spalancare le finestre dei luoghi comuni e delle frasi fatte, generare una rete delle reti tra donne e donne, donne e uomini. Oppure quella delle otto edizioni del Tempo delle Donne, di cui era mente e motorino.
E tuttavia sarebbe sempre e solo una piccola parte, tutt’intorno c’è un bosco di storie con lei al centro, con lei al telaio a far fiorire contaminazioni.
Le colleghe e i colleghi storici di Sette, quelli dei tanti eventi del Corriere che passavano e ripassavano da lei quando arrivava il momento di andare in scena, quelli di Cuore, i compagni di banco alla Asl di Genova, i gruppi che ebbero la fortuna di averla come guida turistica.
E poi artisti e artiste, artigiani e artigiane, intellettuali (per fortuna qui posso usare un solo plurale, perché rassegnarsi all’unicità del maschile era da cartellino rosso con lei), scienziate e scienziati.
Per non lasciar fuori niente e nessuno, la sua casa digitale, @La27ora, è aperta a chi vuole raccontarla. Faremo quello che lei ha fatto per noi e per anni: caricheremo ogni ricordo che approderà all’indirizzo 27ora@corriere.it.
Succederà, speriamo, quello che è accaduto nelle ultime settimane dentro/fuori il recinto elastico della sua casa non virtuale, quella di famiglia ad Arenzano, dove si è radunata ogni giorno una piccola folla di amiche e amici in coda per Luisa.
Grati alla forza di Paola, sorella minore, libellula dallo stesso cognome.
E accolti da una tavola imbandita che avrebbe addolcito la condivisione del dolore. E dell’amore.
A proposito di @27ora, così si propose Luisa Pronzato quando aprimmo quello che era un blog e sarebbe diventato un Paese, il 9 marzo 2011.
«Alla mia età, molte fanno il lifting. Io mi sono gettata nell’online. Intrigata, soprattutto, da idee e creatività che ruotano attorno all’impalpabile byte. Urticata dalla Rete, resto una deficiente digitale, senza sensi di colpa per il gap con i trentenni ma propensa a indagare filosofie e aperture dello zero punto due. Credevo che noi ragazze (e soprattutto le nuove generazioni) ce l’avessimo fatta: diverse, certo, dagli uomini, ma diverse come qualsiasi individuo. E invece ho l’impressione che si sia tornate a essere “sesso debole”… Allergica ai moralismi, mi ritrovo a indignarmi perfino di una vetrina fatta da manichini con mutande e calzoni abbassati. Per fortuna mi indigno pure di altro. Sono, con orgoglio, lo stereotipo della zitella (lascio ad altre i doveri della single). Pasionaria, non rinuncio agli entusiasmi. Fotografo per esercitare occhio e mente e continuare a raccontare».
Il nostro racconto, il nostro viaggio insieme continua, non disperderemo le tracce, ma non sarà mai abbastanza.
«Sto sudando come una dannata… qui mi hanno dato pure il lirico. Lavoro vitale per domattina. Prendi bozzone inizio. Prendi listone titoli di lavoro. E cerchi ci capire se tra proposte colleghe e listone attuale c’è qualche cossesdione».
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