Roberta Ceretto, la signora del Barolo: «Vino e cultura per

Roberta Ceretto, la signora del Barolo: «Vino e cultura per

di Francesca Gambarini

La presidente delle omonime cantine propone l’idea di un «distretto del gusto» oltre il business enologico: «Un ecosistema di attività per essere più competitivi»

Sarà che ci ha messo del suo anche il Financial Times : nel 2021 ha definito le Langhe «la migliore fuga d’autunno in Italia».

Sarà che il turismo outdoor e di prossimità è il nuovo lusso. Sarà che la crescita di questo territorio non si è più fermata dal 2014, quando i paesaggi vitivinicoli delle Langhe-Roero e Monferrato sono entrati nella lista Unesco dei patrimoni dell’umanità.

Tant’ è che ad Alba l’anno scorso si è raggiunto un record di 150 mila pernottamenti, annuncia la stampa locale. Molti europei, e non solo nella stagione di vendemmia e tartufi. «Si è puntato tutto sulla qualità senza compromessi, e oggi il risultato è questo grande riconoscimento, in Italia ma soprattutto all’estero», è una delle letture possibili. A darla è Roberta Ceretto, presidente delle omonime cantine e terza generazione di una delle famiglie storiche del Barolo. La sua azienda ha sede a pochi chilometri da Alba, nella tenuta Monsordo Bernardina, maestosa costruzione sabauda affacciata sulle colline dove inizia la Docg del pregiato rosso. Ceretto è anche il nome che si lega a un bianco molto amato in Italia, prodotto nelle terre del Roero, il Langhe Arneis Blangé.

Racconta Ceretto: «Cominciammo nel 1985, con cinque ettari, che allora erano l’80% dell’intero territorio vocato all’Arneis. Oggi questo vino vale il 50% della nostra produzione, con 500 mila bottiglie l’anno. La nuova annata di solito esce il 14 febbraio. Quest’ anno abbiamo dovuto anticipare al 6 gennaio: a Natale le scorte erano finite».

Le conferme giunte con il Blangé hanno innescato una competizione positiva nelle zone del Roero. «Per noi è stato un cambio di prospettiva, che ci ha portato una fetta di mercato diversa rispetto a quella in cui avevamo fino ad allora operato». Ma al di là del fattore «brand», il big del vino piemontese che cuba 26 milioni di ricavi con le cantine (previsti in crescita nel 2022, 40 milioni il fatturato di tutte le attività del gruppo) nei decenni ha saputo rafforzarsi e ha lavorato su un’identità che andasse oltre il core business enologico, che pure resta un punto fermo .

Così, dopo le intuizioni di Bruno e Marcello, i «Barolo brothers», che negli anni Sessanta acquistarono parcelle nelle aree più vocate e storicamente migliori del Barolo, concentrandosi – tra i primi a farlo in Langa – sul concetto del cru, e una volta consolidato il successo del Blangé, a dare una svolta al modello aziendale è l’ingresso in azienda dei quattro cugini, Alessandro e Lisa (figli di Marcello), Federico e Roberta (figli di Bruno).

Nocciole e restauri

L’idea è focalizzarsi sulle eccellenze del territorio, metterle in rete e far sì che una sia il volano dell’altra. Con l’azienda dolciaria Relanghe la famiglia apre alle nocciole e alla filiera del torrone.

Entra nella ristorazione, ad Alba, con la Piola e Piazza Duomo, in società assieme allo chef Enrico Crippa («Siamo la sola cantina al mondo con un ristorante tristellato», tiene a ricordare Ceretto). Si occupa anche di importazione di vini stranieri attraverso la società Terroirs, «circa 50 cantine, piccoli produttori che condividono le nostre idee – spiega Ceretto -. Andiamo dalla Borgogna, per affinità storica, ai Caraibi, per i distillati».

Si aggiungono poi le attività culturali e l’interesse per l’arte contemporanea, con David Tremlett e Sol LeWitt coinvolti nel restauro della «Cappella del Barolo», già di proprietà della famiglia, oggi un must delle visite in Langa. Tanto che la strada che porta alla colorata costruzione, anche nei weekend invernali è chiusa alle auto. Si sale a piedi. «La definisco la mia croce e delizia – scherza Ceretto -. Prima di entrare in azienda pensavo di fare la gallerista. E avevo compreso il potenziale di un discorso artistico da unire a quello su materie prime e made in Italy». Date le premesse, i progetti continuano. «Credo che la proposta culturale sia importante per rimanere competitivi su scala internazionale: fare vini straordinari è la base, ma non basta più», spiega l’imprenditrice.

I programmi

Altri investimenti sono già programmati. «Il primo è in prossimità della Cappella: recupereremo degli spazi per creare un nuovo tipo di accoglienza. Il secondo è nella zona del Roero, a Vezza d’Alba, dove daremo vita a un parco artistico, per valorizzare il territorio sotto altri punti di vista».

Il legame con le origini e con il grande impegno delle generazioni precedenti è fortissimo in famiglia. Oggi le quattro tenute (Monsordo Bernardina ad Alba, Bricco Asili a Barbaresco, Bricco Rocche a Castiglione Falletto, I Vignaioli di Santo Stefano a Santo Stefano Belbo) coprono 170 ettari di terra di proprietà nelle Langhe e Roero, di cui 90 dedicati all’Arneis, 12 nella docg Barolo e 9 nella docg Barbaresco. Sono i 150 collaboratori tra vigne e uffici e cinquemila i clienti tra enoteche e ristoranti in Italia.

«Con le nostre attività abbiamo voluto costruire una presenza tentacolare, per far crescere un ecosistema di cui possa beneficiare tutto il distretto, e che ora sostenga la ripresa – dice Ceretto -. Le Langhe sono terra di imprenditori eccellenti, attenti al territorio, basti pensare a Ferrero, e l’impegno delle famiglie è visibile. Faccio l’esempio dei nostri ristoranti (4,5 milioni di euro i ricavi del 2021, in linea con il 2019): trovare il personale adatto a un tre stelle Michelin non è semplice, è importante formarlo e saperlo trattenere. Durante le chiusure la famiglia ha pagato di tasca propria tutto il personale. Siamo bravi a prendere decisioni veloci se serve».

La governance è quella famigliare classica, con il gruppo Ceretto che fa capo a una holding di proprietà della famiglia, dove i capostipiti Bruno e Marcello sono ancora coinvolti e dove da trent’ anni c’è uno storico amministratore delegato, Giacolino Gilardi. La società commerciale, la Ceretto Aziende Vitivinicole, è divisa in quote uguali fra i i cugini.

Novità in cantina

Intanto, per il 2022 ci sono novità anche in cantina. «Arriveremo a 20 etichette presentando Rocche di Castiglione, un nuovo Barolo. I nostri rossi (nove etichette) valgono 200 mila bottiglie e vendono molto all’estero, soprattutto Barolo e Barbaresco. Una buona fetta la fa anche il moscato – spiega Ceretto -. Per scelta esportiamo solo il 40% del prodotto, siamo presenti in 60 Paesi e quest’ anno seguiremo da vicino gli Usa: abbiamo appena cambiato esportatore. È un mercato storico: mio padre lo aprì negli anni Sessanta, quando tutti sceglievano la Germania».

Tra le altre destinazioni, Giappone, Russia e Regno Unito, quest’ ultimo in forte crescita. «Stiamo anche affrontando la digitalizzazione, ragionando sul fronte social e comunicazione, di cui mi occupo direttamente – spiega l’imprenditrice -. Ma per ora non apriremo un ecommerce. Soprattutto nel mercato dei rossi, in Italia, non è ancora tempo».

I Ceretto sanno aspettare. Ma senza rimanere con le mani in mano: Roberta e il marito, architetto a Milano, hanno acquistato delle terre nelle zone delle bollicine made in Piemonte, l’Alta Langa. Hanno arruolato un enologo francese, noti consulenti italiani e sono pronti: esordio a primavera, con il nome di Monsignore.

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8 febbraio 2022 (modifica il 9 febbraio 2022 | 14:31)

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Belén: «Io e De Martino? Ci vediamo, ma vivo sola

Belén: «Io e De Martino? Ci vediamo, ma vivo sola

di Maria Volpe

La showgirl debutta mercoledi alle Iene, su Italia 1, con Teo Mammucari: «Mi hanno chiesto di essere me stessa. Il programma nasce in Argentina e lo vedevo da bambina »

Ha 37 anni Belén, ne dimostra meno, anche se dorme poco perché la sua piccola Luna Marì ha solo 6 mesi e si sveglia tanto. Inutile dire quanto è bella. Però, colpisce di più quanto è diventata saggia e molto più consapevole, di sè stessa, di tutto. Domani debutta come conduttrice a «Le Iene» su Italia 1 al fianco di Teo Mammucari.

Belén, quanto iena è lei nella vita?

«Nella vita privata lo sono diventata per le bastonate che ho preso.Oggi invece mi metto al primo posto. Troppe volte mi sono messa in secondo piano, a disposizione dell’amore. Ora ho capito che quando diamo priorità a noi stessi, tutto gira meglio. Nella vita professionale, invece iena lo sono sempre stata. Impossibile stare a galla per 17 anni, tra alti e bassi, se non lotti con tutte le forze».

Come si è preparata alla conduzione di questo programma?

«Quando ho incontrato Davide Parenti (ideatore de “Le Iene”) mi ha detto: “Non ho bisogno di Belén, ma di Maria (secondo nome della showgirl, ndr). Vorrei tu parlassi come fossi con una tua amica».

Più persona, e meno personaggio?

«Maria de Filippi che è la mia mamma televisiva – lavoro con lei da 13 anni – mi ha dato la libertà di andare su un’altra rete, anche facendo in concomitanza, “Tu sì que vales”. Non è da tutti, è una grande donna altruista. Lei mi ha consigliato: “”Le Iene” fanno per te, è arrivato il momento di fare qualcos’altro, di farti vedere in un’altra veste”».

Lei e Teo Mammucari avete lavorato insieme per anni. La complicità non mancherà

«Lo stimo molto, mi piace la sua ironia, e il suo finto cinismo. In realtà è tenero e un ottimo papà».

Ciò non gli impedirà di «massacrarla»

«Lo so, ma ho la corazza, ci sono abituata. Io sono un caso mediatico da anni. Mi massacrano da sempre. Qualche volta, quando ho avuto problemi personali, è stata dura. Piangevo da sola in casa».

Una delle conduttrici de «Le Iene» è stata Ilary Blasi. Cosa le piace di lei?

«Il suo linguaggio semplice. Ilary non cerca di snaturare la sua natura: romana e caciarona, non rinnega le proprie origini. Non è impostata e funziona».

Un’altra è stata Alessia Marcuzzi

«Grande conduttrice da sempre, molto naif, un misto tra donna e bambina e questo porta molta freschezza».

C’è qualche servizio de «Le Iene» che le è rimasto impresso?

«Tanti, soprattutto quelli sulla pedofilia, la prostituzione, gli immigrati. La redazione delle Iene sono una grande famiglia e spesso fanno tanta fatica e guerre infinite per portare alla luce verità scomode. È un programma che amo davvero molto, lo seguivo fin da bambina»

In che senso, in Argentina?

«Il format originale è argentino. Si chiama «CQC» (Caiga Quien Caiga che significa Chi cade per primo, cade) e ricordo da bambina a casa lo seguivo e pensavo “Che bravi, che palle hanno questi!”. E quando, arrivata in Italia, l’ho ritrovato, ho pensato che in tutti i Paesi c’è bisogno di una voce in più per sapere la verità. Bisogna combattere per cambiare un po’ le cose. E ognuno nel suo piccolo può migliorare la società».

Quali situazioni difficili le procurano maggior disagio?

«Le diseguaglianze sociali. Io sono nata in una casetta che non aveva i vetri alle finestre. So cosa vuol dire. La disparità mi fa rabbia».

Ha seguito il Festival di Sanremo?

«Stupendo, uno dei più belli di sempre. Amadeus è riuscito a radunare le diverse fasce d’età. Mio figlio Santiago che ha 8 anni, voleva vedere Sanremo».

Drusilla l’ha omaggiata parlando di un tatuaggio sulla gamba, rievocando la sua famosa farfalla mostrata sul palco dell’Ariston e che fece discutere mezza Italia..

«Geniale Drusilla, di una eleganza unica, ero incantata da lei».

Che ricordi ha dei suoi Sanremo?

«Sono stati una grande scuola. Lì ho capito che se volevo fare tv, dovevo lavorare tantissimo. Mi ha preparato per la guerra».

Santiago, avuto da Stefano De Martino, ha 8 anni. Luna Marì, avuta da Antonino Spinalbese, ha 6 mesi. Due modi diversi di essere madri a distanza di otto anni

«Totalmente. Quando è nato Santiago avevo 26 anni, facevo le cose con leggerezza. Oggi sono una mamma attenta, presente, anche se ho più paure. La carriera è già impostata e ho più tempo da dedicare ai figli. E i figli meritano il nostro tempo».

Dai social si vede che Santiago è molto affettuoso con la sorellina

«È vero, è un bambino che ha una spiccata sensibilità. Ho scelto per lui una scuola internazionale perchè vorrei crescesse con una mente aperta, confrontandosi con compagni di diversi Paesi, rispettando tutte le diverse culture. Perchè essere provinciali non vuol dire essere nati in un paese della provincia, significa non voler guardare il mondo a 360 gradi».

Sono due bravi papà i suoi ex compagni?

«Sì, ottimi entrambi, molto presenti».

Lei si vede spesso con Stefano. C’è un riavvicinamento?

«Non mi va di raccontarmi in questa fase, mi sto occupando di me. Me lo dovevo. Che con Stefano ci rivediamo, non è una novità. Ma noi donne non abbiamo bisogno per forza di un uomo per essere complete. Prima pensavo che senza un compagno la mia vita non fosse completa. Non è così. Ora vivo sola con i miei figli. Serena».

8 febbraio 2022 (modifica il 8 febbraio 2022 | 09:17)

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Il film del Mereghetti, «After Love»: la vita segreta di

Il film del Mereghetti, «After Love»: la vita segreta di

di Paolo Mereghetti

Storia di scoperte e confronti nel primo lungometraggio del regista anglo-pakistano Aleem Khan in cui riesce a svelare senza raccontare, grazie alle sue attrici

Che nella vita possano arrivare eventi a cui non sei preparato, non è certo una novità. Il problema è come reagire di fronte alle sorprese — specie quelle dolorose — che l’esistenza ci riserva. È questo il tema che attraversa l’opera prima di un regista anglo-pakistano, Aleem Khan, che la prestigiosa rivista Screen aveva nominato qualche anno fa «star di domani». Una speranza che il suo primo lungometraggio After Love mantiene, pur con qualche minimo punto di domanda. Il colpo che stordisce la cinquantenne Mary (Joanna Scanlan) è quello che le porta via all’improvviso il marito Ahmed (Nasser Memarzia), talmente inatteso sembra dirci il regista da non essere nemmeno riuscito a inquadrarlo, lasciato fuoricampo sul fondo dell’inquadratura (iniziando così, prima dei titoli di testa, a farci conoscere lo stile con cui condurrà tutto il gioco, fatto di allusioni e di reticenze).

Per il marito, Mary si era convertita all’Islam e con lui sperava di avviarsi a una lunga carriera da nonni se il destino non avesse voluto giocarle un bruttissimo scherzo. Che però non sembra fermarsi qui, perché rimettendo a posto le carte di Ahmed, scopre nel suo portafoglio la tessera di riconoscimento di una donna francese e poi, sul telefonino, degli strani messaggi. E Mary inizia a pensare che i viaggi regolari che il marito faceva dalla loro casa di Dover a Calais, sull’altra riva della Manica, nascondessero qualcosa che andava oltre gli impegni di lavoro. E così lo spettatore inizia a seguire Mary nei suoi viaggi a Calais, decisa a scoprire chi fosse la misteriosa donna che identificherà ben presto grazie alla tessera e che forse non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare se un nuovo scherzo del caso non le avesse dato una mano: ferma, davanti all’abitazione, viene scambiata dalla padrona di casa, Géneviève (Nathalie Richard), per la signora che avrebbe dovuto aiutarla nell’imminente trasloco. Offrendo così a Mary il pretesto per entrare nella vita di quella che inizia a mettere e a fuoco come la sua rivale.

Quelle della reciproca conoscenza — da parte di Mary con la paura di trovare conferme ai suoi dubbi, da parte di Géneviève con più disinvolta superficialità — sono le sequenze migliori, dove Khan dimostra la sua abilità di regista e direttore d’attrici, nel farci capire senza dire esplicitamente, nello svelare senza mai davvero raccontare: la scoperta delle camicie da lavare intrise ancora dell’odore di Ahmed, la titubanza di Mary nel buttarne un paio «che lui non usa più», la scoperta che esiste un figlio di Géneviève, Solomon (Talid Ariss) di cui all’inizio non è chiara la paternità. Ma anche la scena senza una parola dove Mary, rientrata in albergo, si guarda allo specchio, misurando con gli occhi e con le mani le sue forme abbondanti — sovrappeso potremmo dire — e si capisce che pensa al paragone con la più filiforme «concorrente»… I dialoghi sono quasi inesistenti, tutto è questione di sguardi, di allusioni, di atti mancati (quanto volte Mary vorrebbe chiedere, domandare, sapere…), come se la vita si fosse sospesa per paura di conoscere la verità, che però pian piano prende forma davanti agli occhi di Mary e dello spettatore. A volte per vie inattese, come l’inaspettata sintonia che si viene a creare con Solomon e le sue tensioni con la madre. Altre volte in maniera più diretta, dalle frasi che Géneviève si lascia scappare e che Mary sa interpretare.

Inutile aggiungere quello che è largamente prevedibile e cioè che tra le due donne si arriverà a un inevitabile show down, anche perché era il modo più semplice per il regista di uscire da una situazione che rischiava di diventare ripetitiva. Per fare in modo che la storia si avvii verso una conclusione che si poteva immaginare. Peccato solo per una coda finale troppo debitrice di un buonismo e una sorellanza femminile di cui non si sentiva davvero il bisogno e che finisce per sminuire il percorso fatto fino ad ora, quello che non può non ricordare La grande nebbia di Ida Lupino, entrambi giocati d’ellissi e sottintesi per raffreddare il più possibile una materia a rischio manicheismo.

7 febbraio 2022 (modifica il 8 febbraio 2022 | 10:47)

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Davvero Facebook e Instagram lasciano l’Europa? Cosa c’è dietro la

Davvero Facebook e Instagram lasciano l’Europa? Cosa c’è dietro la

di Michela Rovelli

Nel report annuale depositato alla SEC, Meta spiega quali condizioni potrebbero «costringerla» a chiudere i due social in Europa: si tratta di una minaccia già espressa in passato (e più tattica che reale). Si attende una decisione dell’Unione europa in merito alla gestione dei dati personali degli utenti

Gli utenti iscritti a Facebook in Europa sono oltre 300 milioni. Quelli che hanno un account su Instagram arrivano quasi alla stessa cifra. Questo esercito di smartphone potrebbe, tra qualche mese, rimanere privo delle icone dei due social network più utilizzati al mondo?

A lasciare immaginare questo scenario — ovvero che Facebook e Instagram possano non essere più disponibili in Europa — sono le parole usate dalla stessa Meta, la società che fa da cappello a Instagram e Facebook, in un documento ufficiale.

Il documento in questione è un report annuale che ogni società pubblica deve presentare alla Securities and Exchange Commission: la SEC, ovvero l’agenzia indipendente federale il cui obiettivo principale è quello di monitorare l’andamento del mercato e vigilare sulla Borsa.

Meta ha depositato il report per il 2021 giovedì 3 febbraio: 134 pagine (pubbliche, le trovate qui) dove il colosso californiano descrive le attività dell’anno, nonché gli obiettivi futuri.

A pagina 9 si fa riferimento alle leggi e ai regolamenti «in evoluzione che stabiliscono se, come e in quali circostanze possiamo trasferire, elaborare e/o ricevere determinati dati che sono fondamentali per le nostre operazioni, compresi i dati condivisi tra paesi o regioni in cui operiamo e i dati condivisi tra i nostri prodotti e servizi». In altre parole, le informazioni sugli utenti che – secondo Meta – è necessario siano liberi di circolare dai server americani a quelli europei, e da un social all’altro.

Qualora questa situazione cambiasse, «potrebbe influenzare la nostra capacità di fornire i nostri servizi, il modo in cui forniamo i nostri servizi o la nostra capacità di indirizzare gli annunci, il che potrebbe influire negativamente i nostri risultati finanziari», si legge ancora. Insomma: se alcune leggi relative alla privacy cambiassero, in Europa, questo potrebbe influenzare la stessa «capacità di fornire i nostri servizi» nel Vecchio Continente.

Il riferimento qui è a un accordo, il Privacy Shiel d, che nel luglio del 2020 è stato invalidato dalla Corte di Giustizia europa. Questo accordo permetteva di fatto il trasferimento dei dati personali dei cittadini europei nei server americani.

Nonostante quell’accordo sia stato invalidato, però, quella che allora era Facebook Inc. e oggi si chiama Meta ha continuato a trasferire i dati degli utenti sui server americani grazie a un altro tipo di contratto, chiamato «clausule contrattuali standard».

«Nell’agosto del 2020», si legge ancora nel documento di Meta, «abbiamo ricevuto una bozza di decisione da parte della Irish Data Protection Commission» (il Garante irlandese) che «ha concluso in via preliminare che la pratica di Meta di basarsi sulle clausole contrattuali standard non rispetta il General Data Protection Regulation» (il regolamento generale sulla protezione dei dati entrato in vigore nell’Unione europea nel 2018) «e ha proposto, sempre in via preliminare, che quesi trasferimenti di dati degli utenti dall’Unione europea agli Stati Uniti venga sospeso. Riteniamo che una decisione finale su questo punto possa giungere entro la prima metà del 2022».

Ed ecco il passaggio «incriminato»: qualora l’Ue non permettesse più alla società di affidarsi alle clausole contrattuali standard e qualora non venisse adottato un nuovo accordo transatlantico, «probabilmente non saremo in grado di offrire un certo numero dei nostri prodotti e servizi più significativi, compresi Facebook e Instagram, in Europa, il che avrebbe materialmente e negativamente effetti sulla nostra attività, la nostra condizione finanziaria e i nostri risultati operativi».

Quanto è reale, questa «minaccia»?

Va precisato immediatamente che i documenti registrati alla SEC, essendo rivolti agli investitori, devono registrare e prendere in considerazione anche scenari «catastrofici», e sono stati usati in passato anche come strumenti «tattici», per lanciare messaggi «politici» a diversi stakeholders.

Inoltre, non è la prima volta che Meta minaccia di lasciare l’Europa a causa delle regole per la gestione della privacy. Già a settembre 2020, dopo la decisione preliminare della Commissione irlandese per la protezione dei dati, era arrivata la dichiarazione dell’avvocato responsabile della protezione dei dati dell’azienda, Yvonne Cunnane: «Non è chiaro come, in tali circostanze, potrebbe continuare a fornire i servizi Facebook e Instagram nell’Ue», aveva detto.

Ma è la prima volta che questa possibilità viene scritta nero su bianco in un documento ufficiale della SEC.

Un portavoce della società ha precisato che: «Non abbiamo assolutamente alcun desiderio e alcun piano di ritirarci dall’Europa. Semplicemente Meta, come molte altre aziende, organizzazioni e servizi, si basa sul trasferimento di dati tra l’Ue e gli Stati Uniti per poter offrire servizi globali. Come altre aziende, per fornire un servizio globale, seguiamo le regole europee e ci basiamo sulle Clausole Contrattuali Tipo (Standard Contractual Clauses) e su adeguate misure di protezione dei dati. Le aziende, fondamentalmente, hanno bisogno di regole chiare e globali per proteggere a lungo termine i flussi di dati tra Stati Uniti ed UE, e come più di 70 altre aziende in una vasta gamma di settori, man mano che la situazione si evolve, stiamo monitorando da vicino il potenziale impatto sulle nostre operazioni europee».

Anche Nick Clegg, il vicepresidente per gli affari globali e le comunicazioni di Facebook, ha parlato spesso dell’argomento. E in particolare ha recentemente spiegato come «la mancanza di trasferimenti internazionali di dati sicuri e legali danneggerebbe l’economia e ostacolerebbe la crescita delle imprese guidate dai dati nell’UE, proprio mentre cerchiamo una ripresa da Covid-19». Secondo lui questo danno piomberà addosso alle grandi società, come Meta, ma anche a quelle più piccole: «Nel peggiore dei casi, questo potrebbe significare che una piccola startup tecnologica in Germania non sarebbe più in grado di utilizzare un fornitore di cloud basato negli Stati Uniti. Un’azienda spagnola di sviluppo di prodotti non potrebbe più essere in grado di gestire un’operazione su più fusi orari». Per poi lanciare spiegare: «Mentre i politici stanno lavorando verso una soluzione sostenibile e a lungo termine, esortiamo i regolatori ad adottare un approccio proporzionato e pragmatico per ridurre al minimo le interruzioni per le molte migliaia di aziende che, come Facebook, hanno fatto affidamento su questi meccanismi in buona fede per trasferire i dati in modo sicuro e protetto».

La possibilità che Stati Uniti e Unione Europea non trovino un accordo sul trasferimento dei dati degli utenti sembra, per tutti questi motivi, altamente remota.

Insomma: quello di un ritiro di Meta dall’Europa non è, al momento, un «piano o un desiderio». L’averne parlato in un documento ufficiale di quel tipo, di certo, aumenterà la pressione sulle autorità che devono decidere sulle regole della privacy dei consumatori e degli utenti europei.

7 febbraio 2022 (modifica il 7 febbraio 2022 | 16:37)

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Artisti a Kiev: «Disegniamo icone su casse d’armi: le nostre

Artisti a Kiev: «Disegniamo icone su casse d’armi: le nostre

Oleksandr e la moglie Sofia colorano santi e madonne sulle tavole delle battaglie. Le loro opere vanno a ruba. Il ricavato a una ong che cura i feriti sul fronte del Donbass

DAL NOSTRO INVIATO A KIEV
Il legno è larice. Quel che si usa al fronte per imballare i lanciarazzi Javelin appena arrivati dall’America, prima di sparare. Lo stesso che nell’anno Mille utilizzavano per dare la biacca e l’encausto, prima di dipingere. Il formato è al massimo 48×53 cm. Quanto basta a chiudere una cassa di munizioni, mettere nel mirino i russi al confine e magari mandare al Creatore un centinaio di persone. Oppure quel che serve a pregare la Vergine col Bambino, San Giorgio che sconfigge il Drago e l’Arcangelo Barachiele. Mettete dei santi nei vostri cannoni: Oleksandr Klymenko s’accarezza il codino hippy e un po’ ci crede. «Faccio arte che salva la vita», sorride. Fa opere che resuscitano strumenti di morte: icone spalmate sui coperchi della casse d’armi e di munizioni, scartate dall’esercito ucraino e recuperate per aiutare gli ospedali di guerra. Un San Nicola severo 46×51 che s’illumina d’azzurro e porpora su un pezzo d’imballaggio trovato in una fabbrica distrutta di Mariupol. Un San Luca Evangelista essenziale nell’aureola rossa, ad ornare una cassa d’abete 35×40 che conteneva munizioni Akm. Una tenera Maria con Gesù in braccio, 35×40, che colora un legnaccio grezzo e bucherellato preso sulla prima linea di Avdiyivka. «Non avevo idea che queste assi usurate fossero perfette per l’iconografia. Le guardi: sembrano dipinte ottocento anni fa…».
L’arte della guerra nasce in un appartamentino buio di Kiev. Tempere all’uovo, metalli ossidati, sabbie macinate. Tazze di tè nero e pennelli. C’erano una volta i pittori di battaglie, che affrescavano le chiese di battaglioni e picche. Times are changing: Oleksandr e sua moglie, Sofia Atlantova, oggi colorano di santi e madonne le tavole delle battaglie.

Smistando un sacco di commesse: da quando hanno avuto quest’idea, nel 2014, il lavoro non s’è mai fermato e le icone di guerra sono diventate una moda. «La prima fu una Madonna col Bimbo su un coperchio da Rpg che ci regalò un soldato di ritorno dal fronte». Le hanno esposte in tutto il mondo, anche in Italia. Due anni fa, cinque vescovi ortodossi della Chiesa autocefala d’Ucraina hanno portato un San Pietro a Papa Francesco. E quanti soldi: 300mila dollari, tutti donati a un ospedale da campo, a medici, a volontari di un’ong che cura i feriti sul fronte del Donbass. Chi compra un’icona, salva una vita: «Noi non siamo particolarmente religiosi – raccontano i due artisti -, ma la potenza di queste icone ci ha impressionato: tutti le vogliono avere, e i soldi vanno a chi ha bisogno». La teologia ortodossa vuole che le icone non siano solo un ritratto sacro, ma una preghiera, e ne sono parti essenziali il rito del dipingere e i materiali usati. «Che cosa c’è di meglio di questo legno ad uso militare? La maggior parte della gente pensa a questa guerra come a qualcosa di molto lontano. Per noi è importante mostrare che invece questa guerra è già reale, anche se non è ancora esplosa con l’invasione dei russi. E che queste casse di munizioni sono vere. E che dentro c’erano armi vere che uccidevano persone vere».

Le icone piacevano a Matisse per lo splendore degli ori medievali, a Andy Warhol per le loro ripetitività. In California, c’era dieci anni fa un pittore di Venice che stravendeva gli astronauti della Nasa decorati come santi ortodossi. In questi giorni, ogni tanto, le icone escono dall’appartamentino di Kiev e vengono portate alla Cattedrale di Santa Sofia. Per essere ammirate, scrivono i giornali ucraini: «E’ una forma d’arte unica». Ma anche per pregare: c’è stata una veglia con le candele, sere fa, gente in fila nella neve per dare un bacio alle casse della morte. Oleksandr era lì a guardare: «Non voglio che questa guerra diventi totale. Otto anni sono tanti. E spero che le casse d’armi finiscano».

8 febbraio 2022 (modifica il 8 febbraio 2022 | 07:45)

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‘Il principe cerca moglie’, non solo Eddie Murphy: chi non

‘Il principe cerca moglie’, non solo Eddie Murphy: chi non

Stasera va in onda alle 21.20 su Italia 1 “Il principe cerca moglie” (titolo originale “Coming to America”), commedia diretta nel 1988 da John Landis. Il protagonista è il 21enne Akeem (Eddie Murphy), erede al trono dell’immaginario Stato africano di Zamunda che non volendo sposare la donna scelta dai suoi genitori parte per New York con l’amico Semmi (Arsenio Hall) alla ricerca del vero amore. I due si fingono studenti poveri, vanno a vivere nel Queens, lavorano come camerieri in un fast-food e presto Akeem si innamora di Lisa McDowell, figlia del principale. Quest’ultima è fidanzata con Darryl Jenks, ma la loro relazione entra in crisi e così Lisa si avvicina ad Akeem. L’happy end è assicurato. “Il principe cerca moglie” è un film pieno di ironia, prende di mira lo stile di vita americano e non manca di battute memorabili (mitico il cameo degli attori Ralph Bellamy e Don Ameche nei panni di Randolph e Mortimer, i protagonisti di “Una poltrona per due” ridotti in miseria). Eddie Murphy è in stato di grazia e con Arsenio Hall forma una coppia formidabile (i due attori nel film interpretano anche una serie di personaggi minori). La pellicola riceve due candidature agli Oscar (Miglior trucco e migliori costumi) ed è un gran successo al botteghino. Costata 39 milioni di dollari, ne incassa 288 in tutto il mondo e diventa presto cult. A 34 anni dal lancio de “Il principe cerca moglie”, ecco come sono diventati i protagonisti.

8 febbraio 2022 | 12:25

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