di ELENA TEBANO

Dubbi sulla tesi, formulata da un team di ricercatori, che ad Amsterdam fosse stato un notaio ebreo a indicare ai nazisti il nascondiglio della ragazza e dei suoi famigliari

Il 16 gennaio il «Cold Case Team», un gruppo di ricerca interdisciplinare guidato dal giornalista olandese Pieter van Twisk, dal regista Thijs Bayens e da un ex agente dell’Fbi, Vincent Pankoke (e finanziato in parte dal comune di Amsterdam), ha reso noto di aver trovato il «traditore» di Anne Frank, l’adolescente tedesca diventata in tutto il mondo il simbolo dello sterminio nazista degli ebrei grazie al suo Diario pubblicato postumo, in cui descrive i 761 giorni passati con la sua e un’altra famiglia in un sottotetto di Prinsengracht 263 di Amsterdam nel tentativo di sfuggire all’Olocausto. Il nascondiglio fu scoperto dai tedeschi il 4 agosto 1944, Anne Frank e gli altri sette ebrei nascosti furono arrestati e la ragazza fu portata a Bergen-Belsen. Della sua famiglia solo il padre Otto sopravvisse ai campi di concentramento nazisti e in seguito pubblicò il Diario. Dopo un’indagine durata 5 anni Van Twisk, Bayens e Pankoke sostengono di aver identificato «con l’85% di probabilità» colui che ha rivelato ai nazisti dove era nascosta Anne con i suoi familiari: sarebbe stato il notaio Arnold van den Bergh, ebreo al pari dei Frank, nella speranza di ottenere l’immunità per sé e la sua famiglia, come ha raccontato il «Corriere». La loro «scoperta» è stata documentata in una puntata della trasmissione giornalistica 60 Minutes sul canale americano Cbs e in un bestseller, Il tradimento di Anne Frank, scritto come un thriller dall’autrice canadese Rosemary Sullivan e già tradotto in 13 lingue, tra cui l’italiano (nel nostro Paese lo ha pubblicato HarperCollins). Ora però si moltiplicano i dubbi sui risultati dell’indagine. Tanto che la casa editrice Ambo Anthos di Amsterdam si è scusata per la pubblicazione.

L’editrice Tanja Hendriks ha scritto in una mail interna che sarebbe stato necessario un «atteggiamento più critico» e che per il momento non verrà stampata la seconda edizione del libro, in attesa — riporta la «Süddeutsche Zeitung» — di una risposta della squadra di ricercatori «alle domande che sono sorte». Infine si è scusata con tutti coloro che si sono sentiti offesi dal libro.

Quali siano le domande e i dubbi lo spiega il settimanale tedesco «Spiegel»: «Arnold van den Bergh, come la sua famiglia, non si era già nascosto nel 1944? E se era in clandestinità, perché avrebbe dovuto consegnare gli indirizzi alla Gestapo? Perché un clandestino, sottolinea Pankoke, sarebbe stato tanto più vulnerabile e ricattabile se fosse stato scoperto. Ma lo Judenrat (il consiglio degli ebrei di Amsterdam, ndr) ha mai tenuto queste liste? Gli studiosi lo ritengono improbabile, date le circostanze storiche. Nessuno ha mai visto una tale lista. Anche Mirjam Bolle, ex segretaria dello Judenrat, contraddice questa ipotesi. La centoquattrenne ora vive a Gerusalemme, usa un telefono cellulare e la posta elettronica, ha una memoria chiara e dice, in risposta a una domanda dello “Spiegel”: “Non c’erano liste”. Punto». Lo storico e giornalista Sytze van der Zee, che si è occupato a lungo del collaborazionismo degli ebrei in Olanda durante la seconda guerra mondiale e ha fatto da consulente sul tema per la loro indagine, ha sollevato dubbi sulla ricostruzione del Cold Case Team e del libro di Sullivan. Tra gli elementi che Van der Zee giudica infondati c’è l’aver escluso dalla lista dei possibili delatori la collaborazionista ebrea Ans van Dijk, giustiziata nel 1948 per crimini contro l’umanità.

La pronipote del notaio Arnold van den Bergh, Elise Tak, 64 anni,un’artista che vive tra Brooklyn, negli Stati Uniti, e Amsterdam, è più netta: «Ora lo stereotipo dell’ebreo traditore è tornato nel mondo. Puoi provare a contraddirlo, ma rimarrà. E contribuisce all’odio verso gli ebrei in tutto il mondo» dice. «L’intera famiglia di mia madre è stata spazzata via all’epoca. Entrambi i genitori, i nonni, suo fratello. Tutti. Solo mia madre e sua sorella sono sopravvissute perché lo zio Nol le ha protette. Ecco perché esisto. Non conta?», aggiunge, intervistata dallo «Spiegel».

Pieter van Twisk ammette che le prove del suo Cold Case Team «non reggerebbero in nessun tribunale». Ma a sostegno della sua tesi mostra la nota anonima che incolpa «A. van den Bergh» ed è stata recapitata dopo la guerra a Otto Frank. All’epoca furono indagati circa 400 mila casi di collaborazionismo con i nazisti e la nota, ora conservata negli archivi della città di Amsterdam, era finita in possesso del discendente di un poliziotto che fu assegnato al caso nel 1963. Ovviamente una nota anonima non è nemmeno lontanamente una prova.

La polemica e le scuse dell’editore mostrano con chiarezza la difficoltà storica e culturale che abbiamo nel rapportarci alla Shoah e anche all’antisemitismo. Il falso stereotipo dell’«ebreo traditore», a cui allude la nipote del notaio «accusato», certamente esiste ed è stato usato anche dai nazisti e dai fascisti per giustificare la persecuzione degli ebrei. Questo, ovviamente, non esclude le responsabilità di singoli ebrei o ebree che possono aver collaborato con i nazisti nel tentativo di ricavarne vantaggi personali o semplicemente per scampare alla morte: una delle conseguenze dei crimini contro l’umanità è che costringono chi ne è vittima a scelte impossibili. Ma la responsabilità è sempre individuale: non può essere imputata a un intero popolo. Al contempo la Schadenfreude con cui è stata in alcuni casi accolta la tesi del notaio ebreo presunto traditore dimostra «che c’è un mercato per queste storie», come scrive lo «Spiegel»: l’antisemitismo diffuso e più o meno latente trova nel libro la possibilità di incolpare le vittime, confermando i propri pregiudizi.

Il problema infine sta anche in un altro mercato, quello editoriale. Il Cold Case Team e l’autrice del libro hanno deciso di raccontare l’indagine su fatti storici come se fosse un poliziesco. Pieter van Twisk dice che «Anne Frank, Fbi, intelligenza artificiale» (quest’ultima è stata usata per analizzare i dati sul caso) è «una combinazione su cui tutti si sono avventati immediatamente». Erano «merce» preziosa. Il linguaggio da poliziesco ha reso ancora più vendibile tutto questo materiale incandescente. Ma i polizieschi hanno bisogno di identificare un colpevole, di addossare a una persona la colpa del crimine di cui si occupano, dividendo nel contempo il mondo in buoni e cattivi, senza spazio per la complessità. Una cosa che non ha niente a che vedere con la ricostruzione storica. Le logiche del poliziesco impongono la gabbia della semplificazione sul peggior crimine della storia. È questa semplificazione a essere offensiva. Nei confronti delle vittime e di chiunque abbia a cuore la ricerca della verità.

2 febbraio 2022 (modifica il 2 febbraio 2022 | 12:08)

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