di VITALIANO TREVISAN

Esce martedì 8 febbraio per Einaudi Stile libero un’edizione ampliata di «Works», che lo scrittore veneto suicidatosi un mese fa pubblicò nel 2016. Anticipiamo un brano del testo inedito «Dove tutto ebbe inizio. Works-non-works»

Non ho nostalgia per il passato. Mai avuta, nemmeno da giovane. Sono così veloce a dimenticare cose, procedure, persone. Come se avessi in testa un interruttore. In un altro senso, non dimentico nulla, e la mia testa è un magazzino pieno di notizie utili. Il mio territorio, di cui ho vissuto la trasformazione, è ormai irriconoscibile. Non posso però dire di essere «spaesato»; al contrario: è una trasformazione che ho vissuto, a cui, vivendo e lavorando qui, ho fattivamente contribuito, cosa del resto inevitabile. Il fatto è che «il prima» è durato troppo poco per fissarsi come parametro definitivo. Così è per i nati nel periodo del cosiddetto boom economico, a prescindere dalla loro classe sociale. Il Veneto rurale è per me il ricordo di un ricordo, qualcosa che è passato attraverso i miei genitori, ma che non ho mai davvero vissuto. Credo valga per tutta la mia generazione. Grande differenza, rispetto ai nati prima o durante la guerra. Il primo carro armato americano con la stella, e poi il dopo, il lungo dopo, fino a oggi — cito a memoria il Parise dei Sillabari. Io, noi, siamo quelli del lungo dopo fino a oggi. E per tutto il dopo la betoniera non si è mai fermata. I marchi politici sono cambiati, esplosi rottamati e svenduti come tutto il resto.

Anche il Lavoro, scritto con la l maiuscola in quanto concetto, è a suo tempo esploso e si è frammentato: non più grandi fabbriche, ma capannoni, piccoli e medi, con abitazione inclusa, ma spesso anche case con laboratorio al piano terra, e abitazione al primo. La fase della mia infanzia, quando le case degli orafi, con laboratorio appunto al piano terra, sorgevano casuali, punteggiando le nuove aree di espansione residenziale, mimetizzate tra le case di abitazione, ma facilmente riconoscibili: recinzioni più alte, pesanti grate alle finestre, portoni blindati, terrazze ingabbiate, cani da guardia addestrati in giardino, dei veri e propri fortini; poi la fase dei condomini, delle villette a schiera e delle zone artigianali, quella dell’adolescenza e della prima giovinezza. E infine la maturità, ovvero l’età dei centri commerciali, delle rotatorie, delle piste ciclabili eccetera, fase ancora in corso ma che, grazie alla crisi, ha subito un rallentamento, ma è ben lungi dall’essere esaurita, giacché, al presente, nuove tangenziali e superstrade incombono, mentre le porzioni di campagna, inesorabilmente frazionate e ridotte a isole più o meno grandi, non sembrano aspettare altro che di essere opportunamente «valorizzate». La pressione dell’urbanizzazione si avverte altrettanto fisicamente di quella atmosferica. L’erosione è costante e inesorabile.

Il vuoto politico è sempre stato una costante, ma anziché essere riempito, come all’inizio, dall’iniziativa di una famiglia di industriali più o meno illuminati, viene democristianamente invaso da una nuova stirpe di pseudotecnici che, nel rispettabile ruolo di intrallazzatori, assecondano il cieco e brutale e rozzo «vitalismo», ormai divenuto un mito stabile che in molti si impegnano a tener vivo, approntando piani urbanistici che, già a monte privi di ogni vera sapienza urbanistica, vengono poi periodicamente «integrati», e ulteriormente sviliti, dalle inevitabili «varianti». Nel frattempo, l’impianto originario del paese, che nella sua artificialità comunque si teneva intorno al «lavoro», decade lentamente, quasi inavvertitamente, seguendo il decadimento della fabbrica. Curioso come, esso decadimento, segua in modo tanto evidente, e con perfetto tempismo, dinamiche corrispondenti a precise epoche storiche e per niente localistiche. Prima, nella seconda metà dell’Ottocento, il padrone, una persona fisica, che con intraprendenza e rischio personale, impianta e gestisce la fabbrica, determinando e indirizzando al contempo, in modo diretto, anche lo sviluppo del paese; poi un gruppo di manager che, rappresentando un padronato astratto, si limitano a gestire parassitariamente il lavoro altrui, ma restano comunque in qualche modo legati al territorio su cui la fabbrica insiste, territorio su cui esercitano il proprio potere «selezionando» la forza lavoro, ma su cui non agiscono più direttamente, ovvero: niente più case operaie, condomini per impiegati, asili, scuole e meno che mai teatri; infine, con l’acquisizione della Sivi da parte della grande multinazionale americana General Electric, e conseguente decentramento del potere, che si distacca totalmente dal luogo fisico, l’inesorabile spegnimento, attraverso la progressiva delocalizzazione di ogni attività produttiva, successiva trasformazione della fabbrica in centro logistico, e infine totale dismissione di ogni attività; il tutto nel giro di circa dieci anni.

La chiusura definitiva fu un trauma per molti. Non per chi scrive, anzi, devo ammettere che ne fui addirittura contento. Forse contento è troppo, ma non posso negare una certa sottile, interna soddisfazione. Quella specie di fottuta grande famiglia, che a suo tempo mi aveva rifiutato, chiudeva i battenti e lasciava a spasso tutti quegli operai e quegli impiegati che incontravo ogni giorno in paese, e in parte conoscevo personalmente, sempre pronti a lamentarsi per questo o per quello, ma al tempo stesso così sicuri del loro lavoro, del fatto che mai sarebbe venuto a mancare, come se lavorare in quella cazzo di fabbrica equivalesse a un lavoro statale. Avevo sempre l’impressione che mi guardassero e mi parlassero con una certa condiscendenza, come se fossi un animale strano, visto che io un lavoro sicuro non l’avevo, e anzi continuavo a cambiarne uno dopo l’altro, senza mai riuscire a tenerne nessuno. A pensarci bene, non era affatto una mia impressione, ma semplicemente un atteggiamento naturale, per quanto inconscio, degli uomini e delle donne che appartengono interamente, senza rendersene conto, a un’impresa industriale, a una cooperativa, un sindacato o all’apparato statale, e sono dunque «dentro» a tutti gli effetti, e perciò in certo qual modo in pace, al riparo dai conflitti, nel momento in cui vengono in contatto con noi, che non siamo né dentro né fuori, perché, pur non volendo esser «dentro», non ci è comunque possibile essere del tutto «fuori», dato che un fuori non esiste, ma appartenendo a un’idea — nel nostro caso a un’idea di letteratura, a cui ora, dopo esserci nel frattempo circumnavigati, ovviamente non crediamo più, pur continuando comunque a perseguirla con cieca ostinazione — e non a un qualsivoglia gruppo di lavoro, siamo condannati a essere perennemente in contrasto, e di conseguenza perennemente preda della nevrosi e del conflitto, in una società che legittima pienamente solo chi si adatta, e si abbandona all’inevitabile inerzia, così come essa si configura in un Paese industriale che produce benessere, condizione che finisce per assorbire, o essiccare, ogni possibile fonte di cambiamento, sia generale che individuale. Del tutto incomprensibile per chi scrive, abituato a cambiare lavoro continuamente, la stolida inerzia con cui un cosiddetto zoccolo duro di qualche centinaio di operai e di impiegati si tenevano aggrappati, contro ogni evidenza, all’idea che la fabbrica, nonostante tutto, avrebbe continuato la sua attività. I più svegli se n’erano andati da tempo. Che gli «americani», cioè la General Electric, avessero comprato per chiudere, e che fosse solo questione di tempo, era in realtà chiaro a tutti fin dall’inizio.

Ogni successiva mossa dell’azienda confermava l’evidenza. Eppure, furono in molti a tenere duro fino alla fine e, grazie alla cassa integrazione, anche oltre la fine. Sembra una sindrome comune alla maggioranza degli umani che lavorano in fabbriche grandi abbastanza da dare l’idea di essere eterne. E poi c’è l’abitudine: tutti i giorni la stessa strada, gli stessi orari, la stessa rotazione degli orari, le stesse macchine, gli stessi gesti, le stesse persone, gli stessi periodi di ferie, per anni, anzi per decenni. Una prospettiva che, personalmente, mi ha sempre fatto accapponare la pelle; però, mettendomi nei loro panni, certamente rassicurante. Ma se poi non si arriva alla fine del ciclo, cioè alla pensione, se è la fabbrica, quell’organismo che si dà per scontato, quasi fosse un prodotto della natura, a finire il suo ciclo, e ci si rende conto di essere troppo giovani per essere pensionati in anticipo, e ci si sente, e spesso si è troppo vecchi per ricominciare da capo da un’altra parte, anche l’inerzia diventa comprensibile.

Il libro

Works. Edizione ampliata

di Vitaliano Trevisan esce martedì 8 febbraio, per Einaudi Stile libero (pp. 696, e 22). La nuova versione del libro, che era apparso nel 2016, contiene l’inedito Dove tutto ebbe inizio. Works-non-works, pubblicato alla fine della nuova edizione per espresso desiderio dell’autore. Lo scrittore (Sandrigo, Vicenza, 12 dicembre 1960 – Crespadoro, Vicenza, 7 gennaio 2022), dimesso da un reparto psichiatrico, si è tolto la vita dopo pochi mesi. Tra il 2006 e il 2009 aveva realizzato 4 regie teatrali ed era stato attore in 14 produzioni, tra film per il cinema e serie televisive. In Works Trevisan ripercorre i propri mestieri : lattoniere, spacciatore di acidi, portiere di notte. Tra i suoi libri: Un mondo meraviglioso (Theoria, 1997, poi Einaudi Stile libero), Trio senza pianoforte (Theoria, 1998), Shorts (Einaudi Stile libero, 2004, Premio Chiara) , Worsdstar(s) (Sironi, 2004), Il ponte, un crollo (Einaudi Stile libero, 2007), Due monologhi (Einaudi), Tristissimi giardini (Laterza, 2010), Una notte in Tunisia (Einaudi, 2011), Il delirio del particolare (Oligo, 2020)

6 febbraio 2022 (modifica il 6 febbraio 2022 | 11:10)

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