di Paolo Mereghetti
Storia di scoperte e confronti nel primo lungometraggio del regista anglo-pakistano Aleem Khan in cui riesce a svelare senza raccontare, grazie alle sue attrici
Che nella vita possano arrivare eventi a cui non sei preparato, non è certo una novità. Il problema è come reagire di fronte alle sorprese — specie quelle dolorose — che l’esistenza ci riserva. È questo il tema che attraversa l’opera prima di un regista anglo-pakistano, Aleem Khan, che la prestigiosa rivista Screen aveva nominato qualche anno fa «star di domani». Una speranza che il suo primo lungometraggio After Love mantiene, pur con qualche minimo punto di domanda. Il colpo che stordisce la cinquantenne Mary (Joanna Scanlan) è quello che le porta via all’improvviso il marito Ahmed (Nasser Memarzia), talmente inatteso sembra dirci il regista da non essere nemmeno riuscito a inquadrarlo, lasciato fuoricampo sul fondo dell’inquadratura (iniziando così, prima dei titoli di testa, a farci conoscere lo stile con cui condurrà tutto il gioco, fatto di allusioni e di reticenze).
Per il marito, Mary si era convertita all’Islam e con lui sperava di avviarsi a una lunga carriera da nonni se il destino non avesse voluto giocarle un bruttissimo scherzo. Che però non sembra fermarsi qui, perché rimettendo a posto le carte di Ahmed, scopre nel suo portafoglio la tessera di riconoscimento di una donna francese e poi, sul telefonino, degli strani messaggi. E Mary inizia a pensare che i viaggi regolari che il marito faceva dalla loro casa di Dover a Calais, sull’altra riva della Manica, nascondessero qualcosa che andava oltre gli impegni di lavoro. E così lo spettatore inizia a seguire Mary nei suoi viaggi a Calais, decisa a scoprire chi fosse la misteriosa donna che identificherà ben presto grazie alla tessera e che forse non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare se un nuovo scherzo del caso non le avesse dato una mano: ferma, davanti all’abitazione, viene scambiata dalla padrona di casa, Géneviève (Nathalie Richard), per la signora che avrebbe dovuto aiutarla nell’imminente trasloco. Offrendo così a Mary il pretesto per entrare nella vita di quella che inizia a mettere e a fuoco come la sua rivale.
Quelle della reciproca conoscenza — da parte di Mary con la paura di trovare conferme ai suoi dubbi, da parte di Géneviève con più disinvolta superficialità — sono le sequenze migliori, dove Khan dimostra la sua abilità di regista e direttore d’attrici, nel farci capire senza dire esplicitamente, nello svelare senza mai davvero raccontare: la scoperta delle camicie da lavare intrise ancora dell’odore di Ahmed, la titubanza di Mary nel buttarne un paio «che lui non usa più», la scoperta che esiste un figlio di Géneviève, Solomon (Talid Ariss) di cui all’inizio non è chiara la paternità. Ma anche la scena senza una parola dove Mary, rientrata in albergo, si guarda allo specchio, misurando con gli occhi e con le mani le sue forme abbondanti — sovrappeso potremmo dire — e si capisce che pensa al paragone con la più filiforme «concorrente»… I dialoghi sono quasi inesistenti, tutto è questione di sguardi, di allusioni, di atti mancati (quanto volte Mary vorrebbe chiedere, domandare, sapere…), come se la vita si fosse sospesa per paura di conoscere la verità, che però pian piano prende forma davanti agli occhi di Mary e dello spettatore. A volte per vie inattese, come l’inaspettata sintonia che si viene a creare con Solomon e le sue tensioni con la madre. Altre volte in maniera più diretta, dalle frasi che Géneviève si lascia scappare e che Mary sa interpretare.
Inutile aggiungere quello che è largamente prevedibile e cioè che tra le due donne si arriverà a un inevitabile show down, anche perché era il modo più semplice per il regista di uscire da una situazione che rischiava di diventare ripetitiva. Per fare in modo che la storia si avvii verso una conclusione che si poteva immaginare. Peccato solo per una coda finale troppo debitrice di un buonismo e una sorellanza femminile di cui non si sentiva davvero il bisogno e che finisce per sminuire il percorso fatto fino ad ora, quello che non può non ricordare La grande nebbia di Ida Lupino, entrambi giocati d’ellissi e sottintesi per raffreddare il più possibile una materia a rischio manicheismo.
7 febbraio 2022 (modifica il 8 febbraio 2022 | 10:47)
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